domenica 26 gennaio 2020

La scuola nell’antica Roma. Maestri e studenti.


La scuola nell’antica Roma. Maestri e studenti.
Le prime scuole pubbliche romane nacquero solo nel tardo periodo repubblicano. Prima di allora, l’insegnamento era affidato a mastri privati, generalmente schiavi o liberti di origine greca, e l’educazione mirava soprattutto a formare virtuosi cittadini.


(LA)
«Non equidem insector delendave carmina Livi
esse reor, memini quae plagosum mihi parvo
Orbilium dictare; sed emendata videri
pulchraque et exactis minimum distantia miror. [1]»
(IT)
«E comunque non depreco e non voglio distrutti
i poemi di Livio che -ricordo- a me da ragazzo
Orbilio[2] dettava a suon di botte, ma mi meraviglio
che siano creduti puri, leggiadri, praticamente perfetti»


Un magister romano con tre allievi. Bassorilievo rinvenuto a Neumagen-Dhron, presso Treviri.


Mentre in Grecia il saggio Licurgo (leggendario legislatore spartano, vissuto tra il IX e l’VIII secolo a.C.) aveva dettato norme precise per l’educazione dei fanciulli, nella Roma antica non esisteva nulla di simile. Dall’età arcaica fino alla metà del IV secolo a.C., l’istruzione impartita ai giovani, in base alle informazioni che abbiamo, doveva essere piuttosto scarna ed essenziale. Bisogna però considerare che Roma stessa, con le sue istituzioni e i suoi costumi, era una scuola naturale in virtù civili e militari. I bambini imparavano a leggere e scrivere dai familiari, in particolare dal padre o da schiavi istruiti. Costoro provvedevano poi a trasmettere ai piccoli le competenze fondamentali, a seconda che fossero maschi o femmine: agricoltura e arti militari per i primi, filatura, tessitura, cucito ed economia domestica per le seconde. Un particolare, però, distingueva l’insegnamento a Roma antica da quello delle civiltà coeve e successive: i bambini dovevano imparare a memoria le Leggi delle XII Tavole. Emanate nel 451 a.C., erano le prime leggi scritte della Repubblica. Ispirare alle norme greche e incise su dodici tavole di bronzo affisse nel Foro, erano comprensibili e accessibili a tutti i cittadini. Il fatto d’iniziare qualsiasi educazione nel testo base del diritto romano garantiva la formazione del Civis Romanus, il cittadino romano, plasmato sui valori solidi e immutabili che assicuravano l’esistenza e il potere dell’Urbe. Del resto, come scriveva Ennio, poeta del III secolo a.C., considerato il padre della letteratura latina: “E’ sui costumi antichi che riposa la grandezza di Roma”.

Dalle leggi alla religione. Un posto di riguardo spettava all’educazione religiosa: i bambini imparavano a memoria i Carmina Saliaria, i canti dei Salii, antichissimi sacerdoti risalenti all’epoca del re Numa Pompilio. Questi canti, nei quali si invocavano gli dei di Roma, erano una specie di catechismo per imparare i nomi delle divinità e i loro attributi. Allo stesso tempo rafforzavano nel bambino il senso del sacro, che permeava tutta la civiltà romana arcaica. Largo spazio era lasciato anche all’educazione fisica, che mirava a temprare il corpo e il carattere del piccolo, preparandolo alle fatiche della guerra. Quest’idea dell’istruzione si mantenne a lungo nel costume romano: ancora fra III e II secolo a.C., il severo Catone il Censore si vantava di aver educato i figli come avevano fatto tutti i suoi avi, insegnando loro a “leggere, scrivere, nuotare e combattere”. La situazione iniziò a mutare nella seconda metà del III secolo a.C. Cent’anni prima, tra il 367 e il 351 a.C., la plebe aveva ottenuto l’accesso al potere politico; nel frattempo si erano intensificati i rapporti con la Grecia. Lentamente, con la crescente introduzione di elementi stranieri, l’antica educazione domestica e nazionale cambiò, mentre diminuiva l’importanza del padre come modello di riferimento educativo. I genitori cominciarono a disinteressarsi dell’istruzione dei figli, affidandola a figure esterne, non sempre qualificate. Così, alla fine del III secolo a.C. cominciò a porsi seriamente il problema di un’istruzione privata o pubblica.

Giovinetta intenta alla lettura (bronzo del I sec.

La rivoluzione di Quintiliano.

Statua di Quintiliano a Calahorra, città natale del retore
Il metodo d’insegnamento applicato nelle scuole romane era noioso e monotono. Gli allievi dovevano imparare a memoria e ripetere macchinalmente una quantità di nozioni, senza necessariamente comprenderle. Il rapporto tra maestro e allievo era improntato alla massima severità e freddezza, cosa che certo non alimentava negli scolari l’amore per il sapere. Ma nel I secolo d.C. l’oratore Quintiliano rilevò due elementi che oggi riconosciamo fondamentali per la buona riuscita del processo educativo. Il primo è la capacità, da parte del maestro, di attirare l’attenzione dei ragazzi stimolandone l’interesse e la curiosità e interagendo con loro. Come spiega Quintiliano: “La voce del maestro è come il sole, che elargisce a tutti la medesima luce e il medesimo calore. Il secondo elemento è costituito dall’importanza del gioco nel processo di apprendimento. Queste due illuminanti intuizioni sono contenute nell’Institulio oratoria (la formazione dell’oratore), un trattato di retorica redatto nel 90-96 a.C., che per circa un millennio venne considerato, in sostenza, l’unico manuale di pratica e teoria pedagogica dell’Occidente. 

Il gioco della scuola. L’educazione privata, preferita dalle classi alte, era affidata a un pedagogo (termine che deriva dal greco e significa “colui che giuda il bimbo”), cioè uno schiavo istruito o un liberto, il cui unico compito era prendersi cura dell’educazione dei fanciulli di casa. Quanto alle scuole pubbliche, in realtà non esistevano: in età repubblicana lo Stato non si occupò mai di organizzarle o sostenerle economicamente. Le scuole sorgevano grazie all’iniziativa di singoli individui, che affittavano a proprie spese uno spazio in cui accogliere bambini e ragazzi dei due sessi per istruirli in cambio di un compenso. Come riporta lo storico greco Plutarco, la prima di tali scuole fu aperta nel 231 a.C. dal liberto Spurio Carvillo. Più o meno nello stesso periodo, il colto liberto Livio Andronico (280-200 a.C.), nativo della Magna Grecia prese a impartire lezioni di latino e di greco ai giovani delle gentes patrizie.
A ogni modo, le fonti che parlano dell’educazione dei bambini sono piuttosto rare e bisogna attendere il II secolo a.C. per trovarne qualche traccia nei testi e capire com’era organizzata la scuola romana. La prima sorpresa sta nel nome: ludus, gioco. Proprio come un gioco, lo scopo fondamentale della scuola, simile alla nostra scuola primaria, era la socializzazione del bimbo, che nello stesso tempo apprendeva le nozioni di base sotto la guida del ludi magister, il “maestro del gioco”. Bambini e bambine imparavano a leggere, scrivere e far di conto. Poiché i prezzi erano molto bassi, il ludus era accessibile a quasi tutti. Non esistevano edifici scolastici: le lezioni si svolgevano all’aperto, sotto la pensilina (pergula) di qualche bottega; oppure, in caso di maltempo, in un locale della stessa, che soltanto una tenda isolava dal testo dell’ambiente. Da un lato, il chiasso della strada disturbava le lezioni, dall’altro il brusio degli allievi e i richiami dei maestri infastidivano i residenti, come testimonia il poeta Marziale, che in uno dei suoi epigrammi inveisce contro un maestro che insegna sotto casa sua impedendogli di dormire. Le lezioni, infatti, cominciavano prestissimo, verso le sei di mattina, e si protraevano fin verso mezzogiorno. Dopo la pausa per il pranzo, riprendevano nel pomeriggio. I ragazzi delle famiglie più agiate venivano accompagnati da uno schiavo, incaricato di portare l’occorrente per lo studio e provvisto di lanterna per illuminare le strade buie nei mesi autunnali (d’inverno le scuole erano chiuse). Non esistevano cartelle o zaini: gli studenti avevano soltanto la capsa, un astuccio cilindrico contenente le tavolette cerate, lo stilus (la cannuccia da scrivere) e i calculi, le pietruzze per fare i conti. Durante il tragitti ci si fermava presso un forno a comprare qualcosa da mangiare nell’intervallo di pranzo. I ragazzi del popolo si arrangiavano come potevano, portandosi da casa un po’ di cibo e arrischiandosi a camminare anche senza lume. Poiché non esistevano locali specifici adibiti all’insegnamento, gli spazi all’aperto o al chiuso erano arredati con il minimo indispensabile: sgabelli per gli alunni, un sedile (sella) o una sedia con schienale (cathedra) per il maestro, una lavagna, un pallottoliere e un abaco. Non esistevano nemmeno le classi come intendiamo noi: gli scolari, dai 7 ai 12 anni, erano divisi in gruppi in base al livello di apprendimento, indipendentemente dall’età. L’istruzione primaria era affidata al ludi magiseter, ma poi gli allievi passavano a studi più complessi, approfondendo la lettura e la scrittura, l’aritmetica e la stenografia (ossia la tecnica delle abbreviazioni, molto usata a Roma).

Le punizioni corporali.
Nelle scuole romane la disciplina era rigidissima e le punizioni corporali molto frequenti. Verghe e fruste di cuoio erano parte integrale del corredo di ogni maestro come riporta Marziale nei suoi Epigrammi, indicando nel bastone il vero simbolo dell’insegnante. Il poeta Orazio ricorda il suo maestro Orbilius con l’appellativo di plagasus, manesco. Un affresco rinvenuto a Pompei, mostra la punizione di uno scolare con modalità a dir poco sconcertanti: il ragazzino, nudo, e uno dei compagni se l’è caricato sulla schiena e un altro lo tiene per i piedi mentre viene frustato. Aspramente contrario al valore pedagogico delle punizioni corporali, l’oratore Quintiliano così commenta questa pratica: “Il dolore e la paura fanno fare ai fanciulli cose che non si possono onestamente riferire e che ben presto li coprono di vergogna. Accade di peggio se si è trascurato d’indagare sui costumi dei sorveglianti e dei maestri. Non oso dire le infamie cui uomini abominevoli si lasciano andare in base al loro diritto di punizione corporale”.

La gerarchia scolastica. Al livello più basso stavano gli abecedarli, cioè gli scolari che studiavano ancora l’alfabeto, seguivano i sillabarsi, che imparavano le sillabe e il modo di combinarle nelle parole, infine c’erano i nominarsi, che erano in grado di leggere e scrivere le parole complete.
Compiuti i 12 anni, gli allievi in grado, per capacità e mezzi, di continuare a studiare venivano avviati al secondo livello, dove un grammaticus insegnava loro materie letterarie e scientifiche: lingua e letteratura greca e latina, storia, geografia, fisica e astronomia. Poiché, per le donne, l’età minima per sposarsi era 12 anni, molte allieve dovevano lasciare la scuola quando avevano 10 o 11; poche fortunate potevano continuare gli studi in privato.
Il livello scolastico più alto era quello intrapreso sotto la guida di un rhetor, maestro di retorica e di eloquenza, che formava i giovani desiderosi di intraprendere la carriera politica, per i quali l’abilità oratoria era fondamentale. Completato anche questo ciclo di studi, che durava due anni, chi poteva permetterselo si recava all’estero per perfezionarsi nella filosofia o nelle scienze: Atene e Rodi, in Grecia, Pergamo in Asia Minore e Alessandria in Egitto erano le mete più ambite. Per tutti, l’anno scolastico iniziava alla fine di marzo e durava otto mesi, con frequenti interruzioni legate alle molte festività che caratterizzavano la vita romana.
A dispetto dell’importanza del loro compito, quella dei maestri non era una classe privilegiata. Nel I secolo d.C., l’onorario di un’insegnante di qualsiasi livello non superava i 20 sesterzi al mese: lo stipendio di un manovale. Con il tempo le cose sarebbero cambiate di poco, come testimonia l’editto De pretiis (sui prezzi), emesso dall’imperatore Diocleziano nel 301. Per portare a fcasa la stessa somma di un artigiano non specializzato, un maestro doveva riuscire a mettere insieme classi di trenta allievi: impresa non facile, data l’aspra concorrenza. Così, era inevitabile che gli insegnanti cercassero di arrotondare le loro magre entrate come potevano: molti facevano gli scrivani, o s’ingegnavano a dare lezioni private, magari a qualche adulto desideroso di recuperare il tempo perduto.
Il sistema scolastico ricevette forte impulso su un’epoca imperiale, soprattutto nel periodo tra i principati di Augusto (27 a.C. – 14 d.C.) e Marco Aurelio (161-180). Vespasiano, che regnò dal 69 al 79, fu il primo a concepire la figura professionale dell’insegnante come dipendente statale, stipendiato dal governo. Dopo di lui, Adriano (117-138) incentivò la diffusione delle scuole anche nelle province più estreme dell’Impero, offrendo privilegi economici a maestri e precettori che avessero accettato di stabilirvisi. Alessandro Severo (222-235) fondò scuole pubbliche e istituì borse di studio per gli allievi poveri ma meritevoli, permettendo che continuassero a studiare. Graziano (367-383) stabilì per ogni città, a seconda dell’importanza, la somma che doveva corrispondere ai maestri. Nel 425, Teodosio II fondò la Scuola di Costantinopoli, dedicata agli studi di alto livello, qualcosa di molto simile alla nostra università. Fu l’ultimo atto suo della politica educativa di Roma. Cinquant’anni dopo, l’Impero Romano d’Occidente crollava dando inizio al Medioevo.

Articolo in gran parte di Alessandra Colla pubblicato su civiltà romana n. 2 – altri testi e immagini da wikipedia.  

mercoledì 22 gennaio 2020

Gengis Khan Il sovrano oceanico.


Gengis Khan
Il sovrano oceanico.
Ancora oggi la figura di Gengis Khan non smette di affascinarci: carisma, valore in battaglia e astuzia lo portarono al vertice di un vasto impero che dopo la sua morte presto si frantumò. Andiamo alle radice del mito di uno dei più grandi condottieri della storia.

Gengis Khān (o Genghis Khan[?·info], nato come "Temüjin",[1] in alfabeto cirillico mongolo Тэмүжин; alto corso dell'Onon1162[2] – Yinchuan18 agosto 1227) è stato un condottiero e sovrano mongolo.

Dopo aver unificato le tribù mongole, fondando l'Impero mongolo, le condusse alla conquista della maggior parte dell'Asia centrale, della Cina, della Russia, della Persia, del Medio Oriente e di parte dell'Europa orientale, dando vita, anche se per breve tempo, al più vasto impero terrestre della storia umana. Fu sepolto in un luogo tuttora ignoto della nativa Mongolia.



A distanza di secoli Gengis Khan ha ancora una f

Genghis Khan.jpg
Pseudoritratto - Museo Nazionale di Taipei
Khagan dei Mongoli
In carica1206 - 1227
Incoronazione1206
PredecessoreYesugei
SuccessoreDjuciÖgödei
Nome completoTemüjin, Gengis Khan - grafia mongola: Cinggis qagan.svg
NascitaDeluun Boldog1162
MorteGardi, agosto 1227
PadreYesugei
MadreHo'elun
ConsorteBörte UjinKulanYisugenYisui, altre
FigliDjuciÖgödeiChagataiTolui, altri

orza di attrazione che sbalordisce. Quando qualche anno fa il Washington Post chiese agli storici americani quale fosse del millennio, il risultato fu sorprendente: due terzi degli studiosi interpretati indicò proprio il capo mongolo. Eppure tra gli occidentali la sua figura non gode certo di buona fama, visto che è passato alla storia come massacratore e distruttore di civiltà fiorenti. Si è calcolato che le sue conquiste costarono al mondo più di 10 milioni di morti. Ma era un personaggio affascinante e un condottiero di straordinario valore. Nell’arco di una vita riuscì a trasformare cacciatori e allevatori nomadi in un’orda di guerrieri invincibili, capaci di creare il più vasto impero della storia.
Tutto cominciò nel 1167, anno in cui nacque il futuro imperatore. A quel tempo cinque tribù si dividevano i pascoli nei territori tra il lago Baikal e il deserto del Gobi: i Merkiti a nord, i Tartari a est, i Kerati a sud, i Naemani a ovest e i Mongoli al centro, che però erano frammentati in una miriade di clan sempre in guerra. Temici, questo era il nome di Gengis Khan, apparteneva a uno di loro. Suo padre era il capo dei Borijgin, ma morì assassinato dai Tartari quando il figlio aveva solo nove anni. Un avvenimento che lasciò la sua famiglia in balia del destino.
La gente del clan abbandonò la vedova, che rimase con i figli e pochi altri fedelissimi, cercando di sopravvivere alla dura legge della steppa, fatta di razzie e violenze. Per i nomadi, che risiedevano nelle yurte (le tende fatte di pelli) e si spostavano alla ricerca dei pascoli migliori, vivendo di caccia e allevamento, assalire accampamenti rivali, fare schiave donne e bambini e impossessarsi del bestiame era la norma. Durante una di queste incursioni Temucin fu persino imprigionato, ma riuscì a fuggire e a riconquistare la libertà. Con il tempo diventò un uomo abile e coraggioso. La sua fama di guerriero cominciò a precederlo: di lui si diceva che fosse spietato con i nemici, ma generoso con chi gli era leale e che dividesse il bottino tra lasua gente in modo equo, senza preferenze.
Grazie a un astuto gioco di alleanze sconfisse una alla volta le tribù nemiche. Per questo, nel 1206, la quriltaj, l’assemblea dei clan, lo elesse capo supremo di tutti i Mongoli con il nome di Gengis Khan, il sovrano oceanico. Tartari, Merkiti, Keraiti e Naemani erano ormai uniti al suo comando. Da quel momento, in poco più di 15 anni, il suo regno si estese dal Mar Nero alla Cina settentrionale, passando per la Persia, l’Afghanistan, il Kazakistan e la Mongolia intera.
Quale fu il segreto dell’uomo che mise in ginocchio i potenti imperi dell’Asia e fece tremare le gambe persino all’Europa? Probabilmente nell’incredibile ascesa di Gengis Khan giocarono un ruolo importante diversi fattori. Uno di questi fu di tipo climatico. L’inizio del XIII secolo fu per le terre mongole un’epoca favorevole. A causa di una prolungata fase di relativa umidità, nei pascoli c’era nutrimento a sufficienza per allevare greggi immense ed enormi branchi di cavalli che permisero di costituire una forte cavalleria. Un contributo, poi, lo diedero anche le divisioni tra gli avversari. Lotte intestine per il potere, contrasti sociali e religiosi indebolirono la Cina e anche il regime musulmano di Corasmia, che egli conquisterà nella sua avanzata.

Il fiume Onon, fiume vicino al luogo di nascita di Gengis Khan

Un grande stratega. Ma l’arma segreta di Gengis Khan fu il suo esercito. Organizzò i suoi soldati su base decimale. L’unità minima era Tarban, composta da dieci uomini. Si narra che se uno di loro mostrava codardia in battaglia, gli altri venivano uccisi una volta tornati al campo. Poi c’erano gli yagun, che riunivano dieci arban, e i minghaan, schiera di mille uomini che costituivano i battaglioni d’assalto. Nell’esercito di Gengis Khan chiunque poteva fare carriera. Le posizioni di comando venivano assegnate ai più valorosi, anche se non erano di nobili origini. Inoltre egli riuscì a sfruttare le caratteristiche tipiche dei Mongoli, gente abituata a cavalcare per giorni, capace di resistere agli stenti. Sopportavano bene il freddo e la fame. Erano abili cacciatori. Il loro arco er il più potente dell’epoca e consentiva di trafiggere un uomo dalla distanza di trecento piedi. Senza dimenticare che lo facevano con facilità anche stando a cavallo. Gengis Khan era uno stratega straordinario. La sua cavalleria fingeva una ritirata per farsi inseguire, le ali dell’esercito accerchiavano il nemico e lo annientavano senza pietà. Sono decine gli episodi di crudeltà riportati dalle cronache del tempo. Fossati difensivi intorno alle città ricolmi di corpi umani, che servivano da ponte per i suoi soldati, enormi piramidi di teschi lasciati a perenne ricordo del suo passaggio, atrocità e violenze contro i prigionieri. Si racconta, per esempio, che durante l’assedio della città di Bamian, nel regno di Corasmia, per vendicare l’uccisione di suo nipote, Gengis Khan ordinò che nessun essere vivente fosse risparmiato: così uomini e animali furono trucidati. La regola era sempre la stessa: chi opponeva resistenza veniva sterminato, gli altri diventavano schiavi o erano costretti a prestare servizio nell’esercito, mentre le città venivano saccheggiate, abbandonate o addirittura rase al suole. All’epoca il solo sospetto che l’esercito mongolo si stesse dirigendo verso una località era sufficiente a seminare il panico per chilometri.
Eppure tutto questo non basta a spiegare il suo successo. Era un uomo di grande carisma ed era straordinariamente intelligente. Non sapeva leggere né scrivere, ma aveva capito l’importanza della cultura. Per questo si circondò di uomini saggi che lo aiutarono a governare. Non esitò a utilizzare le competenze tecnologiche dei popoli conquistati, prendendo al suo servizio architetti, inventori e artisti. Volle che i suoi figli imparassero la scrittura, mutuata dai Naimani, che aveva sottomesso. La utilizzò per le sue leggi e per far giungere il suo volere anche nelle contrade più remote del suo impero.



 

L'Eurasia prima dell'avanzata mongola


L'avanzata di Gengis Khan


Un’armata perfetta.

Distruzione di Suzdal da parte dell'esercito mongolo, dagli Annali della Russia
L’esercito mongolo era tutt’altro che un insieme caotico di cavalieri irregolari, al contrario era una macchina militare perfettamente organizzata e addestrata, basata su unità di 10 cavalieri chiamante arban, 10 arban formavano uno yagun (100 cavalieri), 10 yagun un minghaan (1000 cavalieri). La tipica armata mongola era composta da due o tre tumen. Non era possibile abbandonare volontariamente la propria unità, pena la morte. Il comando poteva accorpare o smembrare le varie unità, secondo le necessità. La disciplina era severissima: se un uomo fosse fuggito in battaglia tutta la sua arban sarebbe stata messa a morte. Nelle orde mongole (orda è la parola mongola che significa “campo” inteso in occidente come armata) per garantire la fedeltà al comando centrale le unità militari non erano costruite secondo le provenienze tribali, anche se i popoli sottomessi mantenevano invece le loro unità etniche. A livello strategico l’armata era normalmente divisa in tre grossi blocchi, l’ala est (junghar), l’ala ovest (baraunghar) e il centro (khol). I cavalieri mongoli portavano con sé fino a cinque cavalli per mantenere sempre disponibile una montatura fresca. Gli ufficiali erano selezionati per merito, e i soldati migliori erano chiamati entrare a far parte del kheshig, il tumen della guardia del khan. Nelle formazioni di cavalleria, sei uomini erano arcieri leggeri e quattro lancieri pesanti. L’esercito in campo si schierava mettendo davanti due linee di lancieri e dietro tre di arcieri, ma poi queste sfilavano potendo raggiungere ogni punto del campo di battaglia grazie alla loro mobilità. A questo scopo ogni yagun (l’unità di cento uomini) era separato dagli altri tramite ampi spazi. Di solito infatti la cavalleria leggera scendeva prima in battaglia con i suoi archi, mentre i lancieri caricavano le linee nemiche quando ormai erano state scompagnate dalla pioggia di frecce. Un aspetto impressionante dei combattimenti mongoli è che l’esercito manovrava nel più totale silenzio, con ordini precisi impartiti attraverso bandiere e tamburi.
La finta ritirata, passo di juyngguan 1211
Vista della Grande muraglia cinese a Juyongguan

La grande mobilità della cavalleria leggera mongola si sposava con un eccellente addestramento, rendendo l’armata di Gengis Khan in grado di compiere manovre tattiche difficili e rischiose. Una delle armi migliori dei guerrieri mongoli era la finta ritirata. Essa richiedeva una grande abilità: l’orda di cavalieri si scagliava contro i nemici, poi iniziava a ritirarsi dando l’impressione di una rotta ma continuando a bersagliare gli inseguitori con le frecce. Infine con incredibile disciplina l’intera cavalleria faceva un improvviso dietrofront caricando i nemici ormai scompaginati.
“Dovete capire che inseguire i Tartari (così venivano chiamati i Mongoli) che fuggono in battaglia è un grande rischio spiega il contemporaneo John Mandeville, perché, nel fuggire, essi continueranno a fare fuoco, uccidendo uomini e cavalli, e quando torneranno a combattere senza alcun preavviso, sorprenderanno tutti in modo imprevedibile”. Gli arcieri mongoli erano capaci di colpire gli avversari con grande rapidità e precisione dalla sella del loro cavallo in movimento, e riuscivano a farlo anche volgendosi indietro. Inoltre la loro ritirata era spesso una finta tattica, che serviva a fasi inseguire dal nemico scompaginandolo, per poterlo poi all’improvviso attaccare facendo dietrofront e colpendolo anche sui fianchi. Giovanni da Pian dei Carpini, francescano ambasciatore del papa presso i Mongoli, ha lasciato un resoconto dettagliato in cui tra l’altro appunta “anche quando i Tartari si ritirano, i nostri uomini non dovranno mai separasi o farsi dividere, poiché i Tartari fingono di ripiegare allo scopo di dividere il nemico”. La tattica della finta ritirata fu usata spesso e quasi sempre con successo dai Mongoli e da Gengis Khan. In alcune occasioni anche per snidare guarnigioni nemich da posizioni fortificate. Come avvenne nel 1211 al Passo di Juyongguan, durante la guerra contro la dinastia cinese Jin. Gengis Khan, che aveva ottenuto una grande vittoria contro i Cinesi a Huan-er-tsui, si trovava però ancora sbarrata la strada per Pechino (allora chiamata Zhongdu). Una forte guarnigione cinese era schierata a difendere il passo e le sue fortificazioni, che facevano parte del tracciato della Grande Muraglia. Gengis Khan incaricò il suo generale Jebe di espugnare il passo. I cavalieri mongoli si lanciarono all’assalto della guarnigione nemica, poi improvvisamente simularono una rotta ritirandosi verso nord. I Cinesi abboccarono e lasciarono le loro posizioni di forza per inseguire i Mongoli per diversi chilometri. Con la sua grande abilità l’esercito di Gengis Khan ruotò su se stesso e contrattaccò il nemico, attaccando il contingente avversario anche sulle ali. I Cinesi furono bersagliati dal forte la guarnigione preferì abbandonare le posizioni e scappare. Per il leader mongolo fu una vittoria completa che gli aprì la strada per la capitale del regno dei Jin.


Un nomade nell’anima. Il Sovrano oceanico per tutta l’esistenza continuò a vivere come la sua gente aveva fatto per secoli: nella sua yurta, con greggi e bestiame al seguito. “Indosso gli stessi vestiti e mangio lo stesso cibo dei pastori e dei guardiani di cavalli”, disse una volta a monaco taoista Chang Chim, che gli era diventato amico. pensava che la sedentarietà portasse al lusso sfrenato, che corrompeva gli animi e rendeva deboli le persone. Ma fece lo stesso uno strappo alla regola: nel 1220 fondò Karakorum, la capitale dell’impero. Ospitava circa 30mila persone, ma la maggior parte di loro viveva nelle yurte. Alla corte del sovrano arrivavano mercanti e ambasciatori, che il Khan riceveva nel Palazzo delle diecimila paci, un enorme edificio diviso in sette navate da file di 64 colonne. L’esistenza di Karakoum fu però effimera. Nel 1260, trentatré anni dopo la morte di Gengis Khan, suo nipote Kubilai trasferì la residenza reale a Pechino. Nel 1331 (era passato poco più di un secolo dalla sua costruzione) la dinastia cinese dei Ming, cacciati i Mongoli, la rase al suolo.
A quel punto il vasto impero si era ormai frammentato in una miriade di principati, autonomi e in guerra tra loro. Cosa era successo? Già prima della morte di Gengis Khan il regno era stato diviso tra i quattro figli che aveva avuto dalla prima moglie. Dopo la sua scomparsa, per alcuni decenni le conquiste continuarono e i Mongoli arrivarono alle porte dell’Europa. Era però cominciata la parabola discendente. I suoi successori avevano rinunciato allo stile di vita nomade ed erano diventati sedentari, perdendo la loro cultura e la loro identità. L’epoca del “Sovrano Oceanico” era finita per sempre.

Articolo pubblicato su Storie di Guerre e guerrieri Sprea Editori, n. 3 bimestrale. Altri testi e immagini da Wikipedia.

domenica 19 gennaio 2020

Rinascimento: Delitti eccellenti.


Rinascimento: Delitti eccellenti.
In Italia nel Rinascimento avvelenamenti e accoltellamenti erano all’ordine del giorno.

“In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù” notava il personaggio interpretato da Orson Welles nel film di spionaggio il terzo uomo del 1949. C’è poco da ribattere. È innegabile che, tra la nebbiolina della velatura a calce di Raffaello Sanzio, il candore dei marmi di Michelangelo e l’oro nei dipinti di Sandro Botticelli, il nostro Rinascimento sia tinto anche di profonde sfumature rosso sangue.

Delitti eccellenti. Omicidi politici, delitti efferati motivati da gelosia, brama di potere e invidia, letterati costretti a soccombere al veleno, amanti fatti fuori con crudeli tranelli. Forse mai come tra il XV e il XVI secolo le morti naturali furono tanto innaturali, nei corridoi dei palazzi delle potenti e agiate famiglie rinascimentali. Colpa dell’ambizione, ma non solo. Bastava un’offesa, vera o presunta, e il delitto era servito. Come nel caso di Michelangelo Merisi, alias Caravaggio. L’artista non era un tipo pacato: risse, finestre rotte a sassate, duelli. Turbolento e incapace di tenersi fuori dai guai, il famoso pittore affrontò diversi processi e pesino il carcere. Ma a nulla poterono le intercessioni dei potenti quando, nel 1606, uccise a Roma, in Campo Marzio, tal Ranuccio Tommasoni da Terni. A scatenare la rissa fu un fallo nel gioco della pallacorda: volarono schiaffi e poi i due, rivali di vecchia data, estrassero le spade. Il pittore colpito rispose al fendente, ferendo a morte l’avversario.
Segnato dall’odio fu anche il rapporto tra il cardinale Ippolito e Giulio II d’Este. I due proprio non riuscivano ad andare d’accordo e quando si trovarono a corteggiare la stessa donna, Angela Borgia, cugina della più nota Lucrezia, finì male. “I sui occhi, da soli valgono più di tutta la tua persona”, pare avesse detto la ragazza a Ippolito, parlando del rivale. Fuori di sé dalla rabbia, il cardinale organizzò un agguato: il 3 novembre 1505, di ritorno da un gita a Belgigardo, Giulio venne accerchiato. I servi del fratellastro avevano l’ordine di ucciderlo e di cavargli gli occhi, ma il massimo che riuscirono a fare fu sfregiare il poveretto e fargli perdere parzialmente la vista.

Giulio d'Este.jpg
Giulio II d'Este fu imprigionato poi per la congiura contro Alfonso e Ippolito e liberato dopo 53 anni di prigione

Rivali in amore. Allora come oggi, la gelosia scatenava i peggiori istinti. Fra i tanti, uno dei delitti passionali più famosi del Rinascimento fu quello che vide protagonista, nel 1590, il compositore Carlo Gesualdo, principe di Venosa. L’uomo trucidò sua moglie Maria d’Avalos e il suo amante in camera da letto dopo essersi appostato per coglierli in fragrante. La legge era dalla sua all’epoca vendicare col sangue un0offesa del genere non era solo legittimo, ma addirittura obbligatorio.
Anche le donne, comunque, sapevano essere crudeli. Prendiamo il caso di Giovanna II La Pazza, regina di Napoli dal 1414. Voci insistenti sostenevano che per chiudere la bocca ai suoi giovani amanti, dopo averli usati li gettasse attraverso una botola segreta, nella fauci di un leggendario coccodrillo, arrivato dall’Africa e installatosi nei sotterranei del Maschio Angioino. Leggenda o no, di certo c’è che il più famoso dei suoi favoriti, Giovanni Caracciolo (detto Sergianni), fece una brutta fine. Dopo l6 anni di turbolenti rapporti, quando l’uomo cominciò a mostrare dispostiche manie di grandezza, Giovanna decise di troncare la relazione la notte del 18 agosto 1432, Sergianni fu pugnalato a Castel Capuano da un gruppo di sicari, mentre la regina ascoltava impassibile dalla stanza accanto gli ultimi rantoli del suo ex.



Faide e coltelli. “L’onnipresenza del pugnale e del veleno ha segnato in maniera indelebile alcune società, come l’Italia del Qauttrocento, la Firenze dei Medici e la Roma dei Borgia. Qui l’assassinio politico, che nelle città Stato assunse la forma delle lotte familiari e della vendetta privata, diventò uno degli strumenti del potere, allo stesso modo del matrimonio, dell’eredità, della guerra e della diplomazia. I suoi istigatori, tra il 1400 e il 1550, furono tutti membri delle aristocrazie e agirono sempre nel nome di interessi secolari” scrive lo storico Georges Minois, nel suo saggio il pugnale e il veleno. L’assassinio politico in Europa (edizioni Utet ).
La posta in gioco era alta: l’eliminazione di un rivale e il dominio sulla città. e gli esempi non mancano. Federico da Montefeltro (1422-1482), passato alla Storia come uno dei principali mecenati rinascimentali, non fu estraneo alla barbara decisione, nella notte tra il 21 e il 22 luglio 1444, del fratellastro Oddantonio, da poco più di un anno duca (poco amato) di Urbino. La mattina successiva all’omicidio, guarda caso, Federico si presentò alle porte della città e, dopo aver stipulato patti e concesso l’impunità agli assassini del fratellastro, venne acclamato signore di Urbino. Spostando dalle Marche alla Lombardia, il sangue blu continua a scorrere a flotti. Di omicidio in omicidio, in meno di un secolo la città di Milano vide avvicendarsi al comando della signoria (poi diventata ducato nel 1395) diversi zii, nipoti e figli. Matteo di Visconti (1319-1355) morì come suo padre Stefano, avvelenato. Mandanti furono i suoi fratelli Galeazzo II e Bernabò, con i quali Stefano aveva condiviso prima, in giovinezza, il tentativo di uccidere lo zio Luchino Visconti, co-signore di Milano, e poi, dal 1354, il dominio sulla città.

I modi di uccidere.
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uno stiletto
Veleni e armi da taglio: ecco i mezzi preferiti dall’aristocrazia per liberarsi dei propri nemici. Tra i due, meglio il primo: seppur considerato l’arma dei vili, garantiva quasi sempre l’anonimato. “il re dei velini e il veleno dei re” era l’arsenico, venduto sottobanco anche dagli speziali (i farmacisti dell’epoca). Si diceva che una sua variante letale, la cantarella, fosse il veleno preferito dalla famiglia Borgia. L’unguento denso e appiccicoso prodotto con l’aconito, una pianta fra le più tossiche della flora italiana, veniva invece usato per bagnare la lama dei pugnali. Chi aveva i soldi, però, non face mai il lavoro sporco in prima persona: piuttosto si avvaleva di un sicario. L’arma preferita da questi assassini prezzolati era lo stiletto: la sua lama lunga e sottile, più facile da nascondere nelle maniche larghe delle vesti, difficilmente lasciava scampo.

Buon sangue. Il figlio di Galeazzo, Gian Galeazzo Visconti, scippò il posto allo zio nel 1385, sette anni dopo la morte del proprio padre. Il colpaccio gli riuscì imprigionando Bernabò con entrambi i suoi figli e lasciando che morisse poco dopo per una scodella di fagioli avvelenati. I geni del primo duca di Milano rispuntarono nel sadico Giovanni Maria Visconti: al potere dal 1402, avvelenò sua madre, che gli faceva da reggente. Ma, secondo il sanguinoso karma rinascimentale, fu fatto fuori a sua volta, nel 1412, da alcuni congiurati. Eppure i Visconti assomigliano alla famiglia del Mulino Bianco, se paragonati ai Borgia. Pare che il famoso Cesare abbia inaugurato il suo ricco curriculum di delitti nel 1492, commissionando l’omicidio di suo fratello Giovanni, pugnalato per strada da alcuni sicari. Lo scopo: poterlo rimpiazzare nella carriera militare, abbandonando quella religiosa cui il padre lo aveva destinato.
A differenza del figlio, che amava le maniere forti, Rodrigo Borgia, alias papa Alessandro VI, preferiva in vece il veleno “Per sbarazzarsi di un membro del clero, crimine condannato in modo particolare, il veleno è più discreto del pugnale, soprattutto quando l’assassino è lo stesso papa”, nota Minois. Probabilmente avvelenati dai Borgia senior scomparvero infatti, in meno di tre mesi il cardinale Gianbattista Orsini, morto all’improvviso il 22 gennaio 1503 in odore di cospirazione anti-pontefice, e il cardinale veneziano Giovanni Micheli, spirato dopo una misteriosa malattia fulminante accompagnata da vomito. Dell’arsenico erano state vittime, alla fine del 1504, anche due letterati: Agnolo Poliziano e Pico della Mirandola. L’esecutore sarebbe stato Cristoforo da Casalmaggiore, segretario personale di Pico, ma si dice che tra i mandanti ci fosse, oltre al solito papa Alessandro VI, anche Piero de’ Medici, il primogenito di Lorenzo il Magnifico. Movente: l’odio politico. Poliziano e Pico, infatti, erano entrambi seguaci di Savonarola, il frate domenicano nemico dei Medici che sobillò i fiorentini, il 9 novembre del 1494, durante la cacciata dalla città dell’imbelle Piero.
Sei anni dopo, un altro toscano si sarebbe schierato con i Borgia: Leonardo da Vinci. Il geniale inventore fu assoldato da Cesare come architetto e ingegnere militare: per lui mise a punto un nuovo tipo di polvere da sparo, studiò macchine volanti e strumenti per la guerra sottomarino. Ma non sarebbe stato meglio se avesse costruito solo orologi a cucù?

Alessandro VI
Alessandro VI 

Articolo in gran parte di Maria Leonadra Leone pubblicato su Focus Storia n. 144 altri testi e immagini da Wikipedia

mercoledì 15 gennaio 2020

Cavour l’uomo che inventò l’Italia.

Cavour l’uomo che inventò l’Italia.
Senza l’intelligenza politica e il gusto per l’azzardo di uno straordinario animale politico come lui, l’unità del nostro paese sarebbe rimasta una chimera. Ma Cavour trasmise all’Italia anche i suoi difetti.

Camillo Benso Cavour di Ciseri.jpg
Antonio Ciseri, ritratto di Camillo Benso di Cavour, olio su tela, ~1859

Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d'Italia
ministro degli affari esteri
Durata mandato23 marzo 1861 –
6 giugno 1861
MonarcaVittorio Emanuele II
Predecessorecarica istituita
SuccessoreBettino Ricasoli

Presidente del consiglio dei ministri del Regno di Sardegna
Durata mandato4 novembre 1852 –
19 luglio 1859
MonarcaVittorio Emanuele II
PredecessoreMassimo d'Azeglio
SuccessoreAlfonso Ferrero La Marmora

Durata mandato21 gennaio 1860 –
23 marzo 1861
PredecessoreAlfonso Ferrero La Marmora
SuccessoreRegno d'Italia

Ministro dell'agricoltura e commercio del Regno di Sardegna
Durata mandato11 ottobre 1850 –
11 maggio 1852
MonarcaVittorio Emanuele II
Capo del governoMassimo D'Azeglio
PredecessorePietro De Rossi Di Santarosa

Ministro delle finanze del Regno di Sardegna
Durata mandato19 aprile 1851 –
11 maggio 1852
MonarcaVittorio Emanuele II
Capo del governoMassimo D'Azeglio
PredecessoreGiovanni Nigra
SuccessoreLuigi Cibrario

Sindaco di Grinzane Cavour
Durata mandatoFebbraio 1832 –
Maggio 1849

Dati generali
Suffisso onorificoConte di Cavour
Partito politicoDestra storica (1849)[1]
ProfessionePoliticoimprenditore
FirmaFirma di Camillo Benso di Cavour
Il nome di Camillo Benzo, conte di Cavour, è indissolubilmente legato a quella breve ma esaltante stagione storica che conosciamo come Risorgimento e che vide il piccolo Regno di Sardegna guadagnare un posto di rilievo nello scacchiere internazionale. E, soprattutto, diventare il centro degli eventi che sarebbero culminati con la proclamazione del Regno d’Italia. Se Giuseppe Garibaldi è il simbolo romantico e idealista di quell’epoca, Cavour ne fu il motore politico e diplomatico. La rocambolesca avventura dell’unificazione divenne realtà grazie alla sua intelligenza fuori del comune, ma anche in virtù della sua capacità di cogliere al volo ogni occasione favorevole.

Il Gros Camille. Nato il 10 agosto 1810 a Torino, Camillo era il secondogenito del marchese Michele di Cavour, appartenente a un’antica e nobile famiglia della città, e della ginevrina Adele de Sellon. La città ai tempi era uno dei capoluoghi dell’Impero Francese, e i Cavour erano amici del governatore Camillo Borghese e di sua moglie Paolina Bonaparte, la sorella di Napoleone. La cultura francese avrebbe giocato un ruolo importante nella vita del futuro politico, che proprio oltralpe trovava parte delle sue radici. Prova ne siano la sua difficoltà a esprimersi in un corretto italiano (che non sarebbe migliorata neanche dopo l’unità italiana) e il fatto che egli guardò sempre alla Francia come spalla su cui appoggiare le manovre politiche sabaude. L’infanzia torinese del Gros Camille, come veniva chiamato affettuosamente in casa, trascorse spensierata, rivolta al gioco e soprattutto al cibo (pare che potesse pranzare anche sei volte al giorno). Come secondogenito, alla morte dei genitore il titolo di marchese e i beni di famiglia sarebbero andati a suo fratello maggiore Gustavo, lasciando a lui la scelta tra i voti religiosi o la vita militare. Decise per la seconda. Nell’attesa di vestire l’uniforme nonostante l’indisciplina e le difficoltà che mostrava in italiano, alla fine il giovane Cavour si diplomò con il massimo dei voti, soprattutto grazie al suo eccezionale talento matematico. Risalgono a quegli anni i primi contatti diretti con la famiglia Savoia, che intanto, dopo la definitiva caduta di Napoleone, era tornata al potere. Nel 1826, Cavour era pronto a iniziare la carriera militare, che però si rivelò poco adatta alla sua indole inquieta: come ufficiale del Genio, spesso si trovava a soggiornare in zone isolate e prive di ogni stimolo intellettuale. Per questo, quando nel 1830 venne trasferito nella ricca ed effervescente Genova, per lui fu come rinascere. Cominciò a frequentare i salotti dell’alta società, acquistò il gusto per il gioco di azzardo (che negli anni sarebbe diventato qualcosa di più di un innocente passatempo) e infine cominciò la sua relazione con Anna Schiaffino, moglie del marchese Stefano Giustiniani.

Donne, gioco e politica. La frequentazione del salotto della sua amante, popolato da intellettuali di chiara inclinazione antimonarchica, giocò probabilmente in ruolo decisivo della maturazione delle idee politiche di Cavour, il quale quello stesso anno si proclamò repubblicano. Una presa di posizione che Camillo pagò con il trasferimento nell’isolata fortezza valdostana di Bard. Incapace di riprendere la monotona vita militare, nel 1831 Camillo si fece congedare e si trasferì a Grinzane, in provincia di Cuneo, dove il padre aveva acquistato una grande tenuta. Oltre a occuparsi della gestione degli affari di famiglia, Cavour divenne il sindaco di quel piccolo paese di circa 350 anime. In quegli anni, compì anche alcuni viaggi all’estero, soprattutto a Londra e Parigi che gli permisero di sviluppare e approfondire la sua visione politica, stemperando le sue idee rivoluzionarie in un liberalismo moderato. Intanto, però, coltivava la passione per le donne, la bella vita e per il gioco: un azzardo in borsa lo portò sull’orlo del baratro, e solo l’intervento del padre lo salvò dalla bancarotta. Oltre al denaro, il genitore gli offrì un consiglio: “hai trent’anni, lascia ai mediocri le passioni di sartoria… Hai una forza di volontà politica. Abbi anche una forza morale”. Quelle parole dovettero sortire qualche effetto, perché Camillo si mise seriamente al lavoro nella tenuta di famiglia e gestì i propri soldi in modo intelligente, contribuendo alla fondazione della Banca di Genova e di quella di Torino, e diventò molto ricco. La politica, però, stava per bussare alla sua porta. Fin dal suo primo giorno, il 1848 si annunciò come un anno decisivo per la nostra penisola a Milano, il 1° gennaio iniziò il boicottaggio del tabacco, monopolio del governo austriaco, mentre il 12 gennaio i soldati del re Ferdinando venivano temporaneamente scacciati da Palermo e a Napoli. Il popolo scendeva in piazza. Quelle notizie raggiunsero Cavour a Torino, dove aveva fondato il quotidiano “Il Risorgimento”, e quando re Carlo Alberto formalmente promulgò lo Statuto Albertino, egli venne prima chiamato a collaborare alla stesura della legge elettorale, e quindi eletto deputato egli stesso.


 La battaglia di Pastrengo. Nel 1848 Cavour sostenne la guerra contro l'Austria come soluzione al pericolo rivoluzionario che minacciava il Piemonte.

Giuseppe contro Camillo: scontro tra i padri del Risorgimento.
I rapporti personali tra Cavour e Garibaldi furono a dir poco complicati: i due potevano condividere l’obiettivo finale, ma certamente non i tempi e i modi con i quali conseguirlo. Camillo cercò sempre di sfruttare la popolarità dell’Eroe dei Due Mondi a fini politici, ma al tempo stesso vedeva nel suo affilato rivoluzionario un pericolo per la causa sabauda. Garibaldi, d’altra parte, mal tollerava l’approccio prudente e calcolatore del ministro. I due sio trovarono in disaccordo molte volte, ma il vero scontro frontale, quello destinato a passare alla storia, si verificò il 18 febbraio 1861, in Parlamento. Garibaldi si lanciò in una durissima invettiva contro il governo guidato dal suo avversario, il quale non aveva ratificato le nonime a ufficiale che lui stesso aveva assegnato ai propri uomini. Giunse ad accusare Cavour di tradimento, per avere ceduto Nizza e la Savoia alla Francia. Alla fine vi furono delle scuse, anche se poco convinte, ma l’episodio spinse osservatori stranieri, come il diplomatico inglese Hudson, a ipotizzare che la prese del primo ministro sul suo govenro si stesse indebolendo.

La strada verso il potere. Intanto, le cose precipitavano. A marzo c’erano state le fatidiche Cinque Giornate, cui i milanesi avevano affrontato e cacciato gli austriaci. Subito Carlo Alberto accettò le richieste di aiuto della città lombarda e ordinò alle sue truppe di penetrare nel territorio del Regno Lombardo-Veneto, dando inizio alla Prima guerra d’indipendenza. Dopo le prime vittorie, però, il vento cambiò e una serie di sconfitte decretò il fallimento di quel primo tentativo piemontese. Carlo Alberto abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele, il quale sciolse il parlamento e indisse nuove elezioni attraverso il celebre “Proclama di Moncalieri”. Cavour faceva parte della maggioranza moderata vincitrice, ed ebbe occasione di mettersi bene in luce: nel 1850 divenne ministro dell’Agricoltura e del Commercio, dimostrandosi subito un politico abile e pragmatico, successivamente il presidente del Consiglio Massimo d’Azeglio gli affidò il ministero della Marina e quindi, nel 1851, quello fondamentale delle Finanze. I successi di Cavour stavano a dimostrare che egli poteva aspirare anche alla poltrona più importante, quella di presidente del Consiglio. Ancora una volta, fu la sua attitudine pragmatica, unita, in questo caso all’indole da giocatore d’azzardo, a ispirargli la mossa vincente: il dialogo con il centro sinistra di Ratrazzi. Lo scontro con d’Azeglio e con molti esponenti del suo stesso partito fu aspro e violento (Cavour era celebre per i suoi scatti d’ira), ma alla fine Camillo riuscì nel suo intento e per sei anni, fino al 1857, il cosiddetto “connubio” tra i due schieramenti resistette alle difficoltà. Alla fine, il 4 novembre 1852, arrivò il riconoscimento tanto atteso: Camillo Benso, conte di Cavour, diventava per la prima volta presidente del Consiglio dei ministri del regno.

 Cavour a 31 anni, nel 1841.[21]

Meglio di Bismarck.
Il talento politico di Cavour non brillò solo in Italia, ma anche nel firmamento europeo: egli godette di un credito crescente, fino a essere considerato l’incarnazione del perfetto statista liberale. Di lui, il politico inglese John Bright disse, dopo averlo incontrato: “Più che un sottile politico italiano, sembra un intelligente gentiluomo di campagna inglese”; di certo considerava questo come un grande complimento.
Fu però soprattutto la Germania a mostrare reverenza nei confronti di Cavour, come testimoniato dalla fortuna che riscosse il saggio del 1869 di Heinrich von Tretischke a lui dedicato e che lo addita come massimo rappresentante della Realpolitk. Questa dottrina politica, incentrata sul pragmatismo e il conseguimento degli interessi nazionali, di lì a poco sarebbe stata applicata in modo ancora più sistematico e spregiudicato dal cancelliere Otto von Bismarck, il quale dovette in ogni caso accettare il confronto con Cavour, non sempre uscendone vincitore. “Nessun uomo politico del suo secolo è riuscito a fare così tanto con così poco”, affermò lo storico Densi Mack Smith. Per non parlare del giudizio, secco e deciso, del grande filosofo francese Henri Bergson: “Cavour è di gran lunga superiore a Bismarck”.


L'Italia al tempo in cui Cavour ebbe il suo primo incarico governativo, nel 1850.

Un gioco pericoloso. Sempre più potente e temuto in patria, Cavour dimostrò appieno la propria grandezza soprattutto in politica estera, in particolare con il coinvolgimento del Regno di Sardegna nella Guerra di Crimea. Nel gennaio del 1855, con uno dei suoi tipici “azzardi calcolati”, Camillo dichiarò guerra alla Russia, ponendosi al fianco di Francia e Inghilterra. Grazie alla vittoria nella battaglia della Cernaia, il Piemonte poté partecipare al congresso di pace di Parigi, che cominciò il 25 febbraio 1856, alla fine del  quale Cavour riuscì a ottenere che la “questione italiana” venisse dibattuta dalle grandi potenze. Era l’inizio di una evoluzione politica che di lì a poco avrebbe portato la Francia di Napoleone III a progettare un intervento in Italia in ottica antiaustriaca e a instaurare un rapporto privilegiato con Cavour. Esso venne suggellato dall’incontro dei due a Plombiére, il 20 luglio 1858, durante il quale furono discussi i possibili futuri assetti politici della penisola. Gli accordi avrebbero dovuto rimanere segreti, ma Cavour fece in modo che diventassero di dominio pubblico, obbligando Napoleone a non rimangiarsi la parola data. Essi prevedevano che, in caso di guerra contro l’Austria, la Francia si sarebbe schierata a fianco del Regno di Sardegna. Adesso si trattava di fare scoppiare la guerra con Vienna. L’occasione si verificò il 29 aprile 1859, quando ormai nemmeno Cavour ci credeva più. Il merito va a un errore dell’imperatore austriaco Francesco Giuseppe, che chiese formalmente il disarmo dell’esercito piemontese: con tale pretesa, l’Austria aveva attentato all’autonomia e alla dignità del Regno, che aveva perciò il diritto di rifiutare le condizioni del nemico. Francesco Giuseppe fu costretto ad attaccare, dando inizio alla Seconda guerra d’Indipendenza, durante la quale Cavour dovette operare con tutta l’abilità di cui era capace. Da una parte doveva domare l’impeto di Garibaldi, dall’altra contrastare l’atteggiamento di Vittorio Emanuele, incline ad accettare una soluzione di compromesso. Vi furono momenti di confronto drammatico con il sovrano, che culminarono con le dimissioni di Cavour da capo del Governo in seguito all’armistizio di Villafranca, l’11 luglio 1859. Camillo venne però richiamato nel gennaio del 1860 per portare a termine un compito che, a quel punto, era evidente a tutti: l’unificazione del territorio italiano sotto l’egida della monarchia sabauda. Prima, però, c’era da far digerire al Governo e all’intera penisola la cessione alla Francia di Nizza e della stessa Savoia che aveva dato il nome alla dinastia regnante: era il prezzo pattuito a Pombiéres per ottenere l’appoggio francese. Alla fine, attraverso due plebisciti di dubbia regolarità, il passaggio dei territori venne ratificato e l’alleanza con Napoleone III confermata. Cavour seppe approfittare della fortunatissima spedizione dei Mille nel Sud, trasformandola in un trionfo sabaudo.

Un giudizio poco lusinghiero.
Come tutte le grandi personalità politiche Cavour era destinato ad attirare su di sé antipatie viscerali, anche a livello personale. La sua pinguedine in età matura era diventata obesità e il periodo trascorso nella fattoria di Leri non aveva certo contribuito ad affinarne i modi. A fornirci una descrizione spietata dei difetti del conte di Cavour è uno dei suoi acerrimi nemici politici, il democratico Angelo Brofferio, il quale così lo descrive in occasione delle sue prime apparizioni nella Camera dei deputati “Nuocevogli il volume della persona, il volgare aspetto, il gesto ignobile, la voce ingrata. Di lettere, non aveva traccia, alle arti profano, d’ogni filosofia digiuno, raggio di poesia non gli balenava nell’anima, istruzione pochissima. La parola gli usciva di bocca gallicamente smozzicata, tanti erano i suoi solecismo che metterli d’accordo col dizionario della lingua italiana sarebbe a tutti apparsa impossibile impresa”. Un giudizio impietoso, che in ogni caso non impedì a Cavour di riscuotere un grande successo tra le dame dell’alta società piemontese che se lo contendevano.


La fine improvvisa. Dopo una lunga gestazione, il Regno d’Italia nacque ufficialmente il 17 marzo 1861, e  Vittorio Emanuele divenne re di un Paese nuovo, che ambiva addirittura a diventare una grande potenza europea. Come se la Storia avesse deciso che la sua missione era terminata, il conte di Cavour lasciò definitivamente la scena politica il 29 maggio, di ritorno da una delle frequenti visite alla sua amante Bianca Bonzani, accusò un malore improvviso. Oggi gli studiosi ipotizzano che avesse contratto la malaria, ma i medici che lo ebbero in cura non riconobbero il morbo e ricorsero invece ai salassi, un rimedio allora considerato alla stregua di panacea per tutti i mali. Purtroppo, sottoposto a quelle cure, la situazione non fece che peggiorare, e Cavour trascorse i suoi ultimi giorni di vita alternando brevi attimi di lucidità a prolungati deliri. Spirò la mattina del 6 giugno 1861. Secondo alcuni, le sue ultime parole sarebbero state dedicate a un nuovo progetto politico: “Libera Chiesa in libero Stato”. Altri, invece preferiscono credere che abbia mormorato un liberatorio “L’Italia è fatto, tutto è salvo”.

Articolo in gran parte di Luigi Lo Forti pubblicato su Conoscere la storia n. 49. Altri testi e immagini da Wikipedia

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