La parabola dei mostri
d’acciaio. L’uso dei carri armati italiani.
Dalle intuizioni
geniali degli esordi ai macroscopici ritardi fino alle miopi visioni tattiche e
strategiche. La storia dello sviluppo dei mezzi corazzati italiani racconta
pregi e difetti del nostro paese. Ecco quali sono stati i modelli più
importanti per il nostro esercito.
L’Italia
aveva aperto la strada all’impiego bellico dei mezzi a motore nella Guerra
italo-turca del 1912. L’8 giugno di quell’anno, durante la battaglia di Zanzur,
erano stati infatti utilizzati per la prima volta nella storia reparti
trasportati da autocarri. Sempre per la Guerra libica, alcuni autocarri furono
trasformati in autoblindo, anche se il primo mezzo italiano di questo tipo fu
l’autoblindo Lancia IZ del 1915. Costruita in 120 esemplari, furono inquadrati
in specifici reparti messi in campo anche nella guerra contro
l’Austria-Ungheria. Rispetto alle altre nazioni, invece, l’Italia arrivò in
ritardo nello sviluppo e nell’impiego dei carri armati, ovvero di mezzi
corazzati cingolati, la cui arma principale era montata su una torretta
girevole. Nel 1917, quando gli eserciti alleati già ricorrevano ai primi tank
per sondare le difese tedesche, in Italia si iniziavano solo ad effettuare test
di studio sui mezzi campione che gli alleati avevano sottoposto al Regio
Esercito per una valutazione, primo dei quali un carro Schneider CA1 francese,
da 13,6 tonnellate.
Nel 1918 la Fiat
produsse il primo carro armato italiano, il Fiat 2000 da 40 tonnellate, fornito
di un cannone da 65 mm in torretta e 7 mitragliatrici disposte attorno allo
scafo, ma i vertici militari lo giudicarono troppo lento e ingombrante. Migliore
accoglienza ebbe il corazzato francese Renault FT 17: per l’epoca un ottimo
carro leggero da 6,5 tonnellate, con caratteristiche che anticipavano i carri
moderni, come l’armamento in torretta girevole e il motore posteriore. L’Italia
terminò la Grande Guerra con un carro Schneider e 7 carri FT17 francesi, e due
carri Fiat 2000: uno di questi ultimo, portato in Cirenaica nel 1919 nella
guerra contro i ribelli libici, si immobilizzò quasi subito e, datata la sua
mole, fu smontato e spostato un pezzo alla volta.
Nel dopoguerra la Fiat
abbandonò la produzione di carri pesanti e iniziò quella su licenza con alcune
migliorie, dell’FT 17 (armato con 2 mitragliatrici da 6,5 mm), modificato nel
1930 e rinominato modello 1930 (alcuni armati di cannoni da 37mm, altri ancora
solo di mitragliatrici), che rimase il principale, se non l’unico, carro
italiano fino al 1933-35. L’ultimo combattimento di questo mezzo concepito nel
1916 avverrò però addirittura in Sicilia nel luglio del 1943, impegnato nel
vano tentativo di contrastare lo sbarco degli Alleati nell’isola. Una vera e
propria produzione in serie di carri armati in Italia iniziò soltanto negli
anni Trenta con il Carro Veloce CV33 seguito due anni dopo dalla versione CV35
– denominato in seguito L3 perché pesanti 3 tonnellate – frutto della
collaborazione tra l’Ansaldo e la Fiat: la prima era responsabile del progetto
e di ogni altro principale elemento costruttivo ad esclusione del motore,
prodotto dall’azienda torinese. Tutti i carri armati italiani costruiti negli
anni successivi nasceranno da questa collaborazione, che assunse le
caratteristica di un vero e proprio duopolio.
Una scelta pericolosa. La produzione dei carri
leggeri era conseguenza della politica di difesa italiana e della dottrina del
Regio Esercito praticamente fino alla vigilia del Secondo conflitto mondiale.
L’unico scenario strategico considerato era un’invasione nemica dalle Alpi, e
ovviamente il territorio montuoso era precluso a qualsiasi mezzo che non fosse
di dimensioni ridotte, capace di
percorre strade strette e di attraversare piccoli punti senza farli collassare
sotto il suo peso. fu anche presa in considerazione l’eventualità di difendere
i domini coloniali italiani in Africa (che il paese nel 1935-36 avrebbe
ampliato con la conquista dell’Etiopia), ma gli alti comandi italiani, sulla
base delle precedenti esperienze nei deserti della Libia, giudicarono i carri
armati inadatti a questo scopo, soprattutto a causa delle difficoltà di
rifornirli e della loro inaffidabilità meccanica in territori e climi estremi.
Un aspetto, però, venne sottovalutato: i combattimenti tra i carri armati, e
questo nonostante la possibilità che il nemico riuscisse a superare l’ostacolo
alpino spostando i combattimenti nella Pianura Padana, dove i carri sarebbero
risultati decisivi. Benito Mussolini, d’altro canto, preferì avere mani libere
in politica estere fino all’ultimo, tanto più perché convinto che la guerra,
per quanto inevitabile, sarebbe stata breve, in questo modo privando le Forze
Armate italiane e l’industria dello stimolo di un chiaro indirizzo strategico
che potesse prevedere tanto i prossimi avversari, quanto i possibili teatri
delle operazioni. Lo sviluppo ancora limitato dell’industria meccanica e
siderurgica italiana, influì in primo luogo sulla quantità dei mezzi che si
potevano produrre, ma anche sulla loro qualità. In Italia, ad esempio, non solo
si producevano pochi motori per carro armato, ma la loro potenza era notevolmente
inferiore rispetto a quelli che uscivano dalla fabbrica delle principali
nazioni in conflitto, e ciò comportava minori velocità e capacità di carico, e
quindi innanzitutto di corazzatura. Questo dato era aggravato dalle difficoltà
di produrre acciaio ad alta resistenza e dalla scelta dell’Ansaldo di produrre
i mezzi con corazze a piastre imbullonate o rivettate a un telaio: un tipo di
corazzatura non solo meno efficiente ma anche più pesante di quelle saldate,
secondo l’orientamento prevalente nelle altre nazioni. E se la protezione
aumenta la capacità di sopravvivenza dell’equipaggio e del mezzo, anche la
velocità concorre a questo obiettivo, perché permette di sfuggire a un
inseguimento nemico, di disorientarlo con rapidi spostamenti quando si viene
presi di mira, oltre che di raggiungerlo se fugge.
I modelli della Seconda guerra
mondiale.
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Carro armato Fiat 3000 modello 1930 LS
Nato come versione migliorata del
precedente
modello 1921 era fornito solo in alcuni
mezzi
di un cannone da 37 mm. La sua concezione
risaliva praticamente al 1916, anno in cui
era
stato realizzato il carro francese FT 17,
di cui
era la versione italiana.
Anno di entrata in servizio: 1930
Equipaggio: 2 uomini
Peso: 1,5 t.
Dimensioni: lunghezza m 3,61 – larghezza m.
1,64, altezza m. 2,19
Motore: a benzina potenza 63 hp
Velocità: 24 km/h
Autonomia: 95 km
Corazzatura: frontale 16 mm, laterale 16 mm
Armatura: cannone vickers Terni da 37/40
Produzione: circa 150
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L3/35 CV 35
Questo
carro leggero venne schierato su tutti i fronti di guerra dall’Etiopia alla
Russia, e impiegato in ogni tipo di missione dall’appoggio alla fanteria
all’avanzata in profondità in sostegno delle colonne motorizzate. Aveva
limiti di corazzatura e scarso potere di fuoco, aggravato dal posizionamento
dell’arma sullo scafo che riduceva l’arco di tiro.
Anno di entrata in servizio: 1935
Equipaggio: 2 uomini
Peso:
3,2 t.
Dimensioni: lunghezza m 3,15 – larghezza m.
1,40, altezza m. 1,28
Motore: a benzina potenza 43 hp
Velocità: 42 km/h
Autonomia: 120 km
Corazzatura: frontale 13,5 mm, laterale 8,5
mm
Armatura: 2 mitragliatrici Fiat 35 o Breda
38
Produzione: 1320
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L6/40
Il
carro leggero L6/40, grazie al suo cannoncino in torretta, rappresentava un
deciso passo avanti rispetto al precedente L3, ma fu consegnato ai reparti
troppo tardi quando ormai era già obsoleto. Con il suo telaio venne anche
realizzato il semovente L40, dotato di un pezzo da 47/32: un mezzo di
scarsissima utilità.
Anno di entrata in servizio: 1942
Equipaggio: 2 uomini
Peso: 6,8 t.
Dimensioni: lunghezza m 3,78 – larghezza m.
1,92, altezza m. 2,03
Motore: a benzina potenza 70 hp
Velocità: 42 km/h
Autonomia: 200 km
Corazzatura: frontale 30 mm, laterale 14,5
mm
Armatura: 1 cannone automatico 20/65 cal 20
mm.
Produzione: circa 402
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M13/40
Sul
suo utilizzo giocò un ruolo negativo l’impreparazione. Nella battaglia di
Beta Fomm, per liberare 10mila italiani, gli M13 sfondarono il dispositivo
nemico, ma la fanteria di appoggio fu fermata e l’attacco fallì. Nove mesi
dopo a Bir el Gubi con un migliore addestramento l’M13 conquistò invece una
brillante vittoria.
Anno di entrata in servizio: 1940
Equipaggio: 4 uomini
Peso: 14,1circa
Dimensioni: lunghezza m 4,91 – larghezza m.
2,28 altezza m. 2,37
Motore: diesel, potenza 125 hp
Velocità: 32 km/h, fuori strada 15 km/h
Autonomia: 200 km su strada, 12 ore fuori
strada.
Corazzatura: frontale 30 mm, laterale 25 mm
Armatura: 1 cannone semiautomatico 47,32. 3
mitragliatrici cal 8 mm. Breda 38
Produzione: circa 710
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M 14/41
L’M14
era una versione leggermente migliorata dell’M13, con un motore un po’ più
potente. Diede un sostanziale contributo alla vittoria nella battaglia di
Gazala (1942), una delle più difficili e cruente. L’M14 combatterà con minore
fortuna a El Alamain, ormai superata dalla qualità e dai numeri dei mezzi
nemici.
Anno di entrata in servizio: 1941
Equipaggio: 4 uomini
Peso: 14,5 t.
Dimensioni: lunghezza m 4,91 – larghezza m.
2,28, altezza m. 2,37
Motore: diesel potenza 145 hp
Velocità: 35 km/h su strada, 15,6 km/h
fuori strada
Autonomia: 200 km su strada. 12 ore fuori
strada
Corazzatura: frontale 30 mm, laterale 25 mm
Armatura: 1 cannone semiautomatico 47/32, 3
mitragliatrici Breda 38 cal 8 mm.
Produzione: circa 695
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Semovente da
75/18 M40 e M41
I
cannoni semoventi furono senza dubbio i migliori mezzi corazzati del Regio
esercito. Realizzati sullo scafo dei carri M13 e M14 e denominati
rispettivamente M40 e M41 erano molto simili, e dotati in casamatta di un
cannone da 75/18
Anno di entrata in servizio: 1941
Equipaggio: 3 uomini
Peso: 13,5 t.
Dimensioni: lunghezza m 4,91
Motore: M40 Diesel, potenza 125 hp – M41
Velocità: 25 km/h su strada, 12 km/h fuori
strada
Autonomia: 10 ore in terreno vari, 200 km
su strada
Corazzatura: massima 25+25 mm. minima 15mm
Armatura: 1 cannone 75/18 in casamatta, 1
mitragliatrice Breda 38 cal. 9.
Produzione: 60 M40 e 162
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M15/42
Si
cercò di rimediare alle carenze dei carri armati medi italiani costruendo un
modello meglio armato, ma la corazzatura continuò a essere troppo leggera. Ne
entrarono in esercizio circa 150
Anno di entrata in servizio: 1942
Equipaggio: 4 uomini
Peso: 15,5 t.
Dimensioni: lunghezza m 5,09– larghezza m.
2,28, altezza m. 2,37
Motore: a benzina potenza 190 hp
Velocità: 18 km/h su strada, 20 km/h fuori
strada
Autonomia: 220 km su strada, 120 km fuori
strada
Corazzatura: frontale 50 mm, laterale 42 mm
Armatura: 1 cannone da 47/40 5
mitragliatrici cal. 8 Breda 38
Produzione: 220
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P26/40
All’Armistizio
ce n’era uno solo. Ne entrarono poi in servizio una decina, ma vennero
impiegati soprattutto dalle truppe tedesche di occupazione.
Anno di entrata in servizio: 1943
Equipaggio: 4 uomini
Peso: 26 t.
Dimensioni: lunghezza m 5,61 – larghezza m
2,8 – altezza m 2,5
Motore: M40 Diesel, potenza 420 hp
Velocità: 42 km/h su strada, 15 km/h fuori
strada
Autonomia: 275
Corazzatura: frontale 50 mm laterale 42 mm
Armatura: 1 cannone 75/34, 2 mitragliatrici
Breda 38 cal. 9.
Produzione: 1
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La guerra di rapido corso. Nella seconda metà
degli anni Trenta il Regio Esercito intraprese un percorso di rinnovamento
delle dottrine e intraprese un percorso di rinnovamento delle dottrine e degli
ordinamenti che, almeno sotto questo aspetto, intendeva portarlo ad allinearsi
con le altre maggiori nazioni. Il sottosegretario alla Guerra, generale
Federico Baiostrocchi, emanò nel 1935 una prima serie di riforme con le
“Direttive per l’impiego delle grandi unità”, e con le “Norme per il
combattimento della divisione”, mentre il suo successore generale Alberto
Parriani nel 1938 poneva ufficialmente la guerra di movimento – chiamata guerra
di rapido corso – al centro delle pratiche belliche del Regio Esercito. Nel
complesso si tratto di provvedimenti parziali e con molti difetti ma che cercavano
di modernizzare le Forze Armate italiane compatibilmente con i limiti
strumentali del sistema paese che le penalizzavano. Seppure in ritardo rispetto
alle altre potenze europee, il Regio Esercito riprese a considerare nella
propria dottrina l’impiego di carri armati
di maggior peso e meglio armati, almeno per sostituire gli antiquati
Fiat 3000.
Definiti nel documento
“carri di rottura”, a loro sarebbe stato affidato il compito di scardinare le
difese più ostiche, affiancandoli ai “carri d’assalto”, che avrebbero dovuto
sostenere con il loro fuoco ravvicinato l’azione delle fanterie, e ai “carri
veloci” il cui compito rientrava nell’azione di sfruttamento del successo delle
formazioni “celeri”, al momento ancora composte prevalentemente dalla cavalleria.
Anche riguardo i carri d’assalto si iniziò a valutare la possibilità di
renderli più pesanti e protetti, e armati con un cannone. Tuttavia queste
ipotesi di aggiornamento dei mezzi non vennero perseguite con particolare
energia: Ansaldo e Fiat sottoposero al Regio Esercito prototipi insoddisfacenti
ma indubbiamente anche quest’ultimo non manifestò grande sollecitudine
nell’esaminarli.
Le ristrettezze del
bilancio militare non consentivano di affrontare spese aggiuntive, tanto più
che si era convinti che il carro L3, nonostante fosse armato solo di una coppia
di mitragliatrici leggere montate sullo scafo, e poco corazzato, potesse essere
impiegato efficacemente nel doppio ruolo di carro d’assalto e di carro veloce.
Ovviamente inadatto alla funzione di carro di rottura, il Comando Supremo
riteneva che la necessità di questo tipo di carro sarebbe stata l’eccezione e
non la regola, e che in ogni caso l’azione di rottura avrebbe dovuto essere
sostenuta in primo luogo dalle artiglierie e dalla fanteria.
Una visione strategica miope. In Italia si
privilegiavano i numeri a discapito della qualità, mentre i futuri belligeranti
in quegli anni si dotavano, fabbricandoli o comperandoli, di carri da 10
tonnellate con un cannone in torretta, di buon calibro, normalmente un 37 mm,
che costavano come tre 1,3 ma dal punto di vista bellico valevano molto di più.
La guerra per la conquista dell’Etiopia (1933-36), e soprattutto la successiva
partecipazione italiana alla Guerra civile spagnola (1936-39) resero evidenti l’inadeguatezza
di questa impostazione e si cercò di correre ai ripari accelerando la
produzione di carri medi di rottura e d’assalto. Dopo molte incertezze e
ritardi, appesantiti dalla cronica scarsità italiana di materie prime –
ulteriormente aggravata dalle sanzioni internazionali comminate all’Italia dopo
l’invasione dell’Etiopia – il primo carro medio fu prodotto solo nel luglio del
1939. L’M11/39 era dotato di un cannone in casamatta e di due mitragliatrici in
torretta, una scelta che lo faceva nascere già antiguato, e nell’ottobre di
quello stesso anno l’Ansaldo produsse il prototipo di un nuovo carro, il futuro
M13/40. Di fatto l’Italia rispetto alle altre nazioni era rimasta indietro di
una generazione di carri armati: un paio di anni soltanto, ma che in un
combattimento tra carri fanno la differenza tra la vittoria e la sconfitta, tra
la vita e la morte.
Nel giugno del 1940,
all’entrata in guerra, l’Italia disponeva di circa 1400 carri leggeri (tra i
quali un centinaio più che obsoleti) e di 96 carri M11. La Gran Bretagna,
principale avversario dell’Italia nel teatro dell’Africa settentrionale,
contava invece su una forza corazzata molto meglio strutturata e più numerosa e
potente, carri leggeri sulle 4-5 tonnellate, analoghi al Carro Veloce CV33 ma
meglio armati, carri Cruiser destinati ad azioni indipendenti, pesanti dalle 12
alle 15 tonnellate e forniti di cannoni da 40mm, e un carro di rottura, il
Matilda, di 26 tonnellate e dotato anch’esso di un cannone da 40mm, che per
quanto lento e soggetto a cedimenti meccanici, aveva il non piccolo pregio di
disporre di una corazzatura che lo rendeva praticamente invulnerabile ai
cannoni anticarri italiani.
Un ritardo che ha fatto differenza. Il
programma complessivo di riarmo del Regio Esercito, partito solo nel 1939,
prevedeva la sostituzione del carro L3 con un nuovo cingolato leggero da 6
tonnellate, denominato L6, più protetto e armato con una mitragliatrice da 20
mm, l’ingresso in servizio del carro medio M13/40 – cui seguirono l’M14/41, che
sarà il più impegnato in battaglia, e l’M15/42 che però combatté solo per la
difesa di Roma – e un carro pesante da 26 tonnellate, il P26/40l sollecitato
dallo stesso Mussolini nell’agosto del 1940. Se questo programma fosse stato
realizzato prima dell’inizio della guerra, al di là di una limitata
arretratezza nelle dottrine tattiche italiane (enfatizzata da scarsa esperienza
e addestramento), è facile supporre che l’invasione dell’Egitto avrebbe
conosciuto un andamento diverso e forse i 275 carri armati della 7a divisione
corazzata britannica non sarebbero riusciti ad avere ragione di una forza più
che doppia di carri armati italiani durante la controffensiva “Compass” – che
costò all’Italia la perdita della Cirenaica, 6mila morti, 10mila feriti e quasi
120mila prigionieri. Ci furono anche felici sorprese, come il successo dei
cannoni semoventi da 75/18, e i modelli ispirati che seguirono, ma in generale
il programma non ottenne i risultati attesi: il carro L6 fu distribuito solo
nel 1942, quando era ormai superato sotto ogni aspetto, i carri del tipo medio
M13 e M14 furono sempre in numero troppo scarso rispetto alle esigenze e fu
solo grazie all’impegno, alla sagacia tattica e allo spirito di sacrificio
degli equipaggi che essi riuscirono tenere testa agli avversari, almeno fino
all’arrivo del carro americano M3 Grant da 27 tonnellate con un cannone da 75
mm, e soprattutto dello M4 Sherman da 30 tonnellate. Alla data dell’armistizio
esisteva un unico carro pesante P26/40 e come le altre poche decine che vennero
prodotte in seguito fu utilizzato dai tedeschi.
Articolo in gran parte
di Nicola Zotti pubblicato su Storia di Guerre e guerrieri del mese ottobre n,
21 Sprea edizioni. Altri testi e foto da Wikipedia.