Divisione Acqui storia
di una carneficina.
Dopo l’8 settembre
1843 nulla fu come prima. A Cefalonia, in Grecia, la divisione Acqui si trova a
combattere con il nuovo nemico tedesco. Superiore in armamento e mezzi. Per gli
italiani sarà una strage.
Dopo
l’esautorazione di Benito Mussolini, avvenuta nel luglio 1943 a Roma, il
Maresciallo Pietro Badoglio, nuovo capo del governo, avvia contatti segreti con
gli Alleati al fine di favorire l’uscita dell’Italia dalle ostilità. Dal canto
suo l’OKW, il Comando supremo della Wehrmacht, si è preparato fin dal maggio
1943 a una probabile uscita dell’Italia dal conflitto. Il piano, nome in codice
Achse, prevede una reazione fulminea, al fine di disarmare e internare le forza
armate ubicate nei vari teatri del Mediterraneo e occupare il territorio
metropolitano, la Francia meridionale e i Balcani. Dopo lunghe trattative, il 3
settembre 1943 il generale Castellano, plenipotenziario italiano, sigla
l’armistizio. Gli accordi stabiliscono che il patto diverrà effettivo dal suo
annuncio pubblico. Eisenhower, il comandante in capo americano, parla da radio
Algeri alle 18,30 dell’8 settembre 1943, dopo oltre un’ora gli fa eco Badoglio
dai microfoni dell’Eiar, la radio italiana. A Cefalonia, isola greca nello
Ionio a sud di Corfù, la stazione della Marina italiana apprende la notizia da
Radio Londra. Alle 19,45 arriva la conferma, con la lettura del proclama da
parte di Badoglio.
L'isola di CefaloniaTipoCaduti in combattimento, fucilazioni sommarie, rappresaglieData23 - 28 settembre 1943LuogoCefaloniaStato Grecia
Coordinate38°15′00″N 20°35′24″EResponsabili1. Gebirgs-Division (Wehrmacht); 104. Jäger-DivisionMotivazioneResistenza italiana[1]all'attuazione, da parte dell'esercito tedesco, dell'operazione Achse[2], volta al disarmo e deportazione delle truppe italiane a seguito dell'armistizio di Cassibile.ConseguenzeMortiLe stime delle vittime sono incerte, a seconda delle fonti e delle circostanze rientranti nel computo, da 1.700 a 9.400Feriti163 accertati (poi deportati)
UNA CONVIVENZA QUASI TRANQUILLA. Sull’isola si
trovano truppe italiane e germaniche. La disposizione sul terreno, per grandi
linee, è la seguente: la penisola di Paliki, a ovest, ai tedeschi, la restante
parte del territorio agli italiani della Divisione Acqui. Dal 20 giugno l’unità
ha un nuovo comandante, il generale di brigata Antonio Gandin. Già coordinatore
della segreteria di Badoglio nel 1938, Gandin ha poi diretto il prestigioso
Reparto pianificazione generale dell’Ufficio operazioni del Comando supremo. Il
suo incarico, fino ai primi del 1943, lo vede frequentemente al seguito di
Mussolini. Decorato con la Croce di ferro di 1a classe e favorito dalla
perfetta conoscenza della lingua, svolge compiti di collegamento con i comandi
tedeschi. La Divisione ai suoi ordini presidia le isole Ionie. Il 18°
Reggimento a Corfù, altri reparti sono a Lefkada e a Zante, mentre il grosso,
circa 12 mila uomini, è schierato a Cefalonia. Quello nell’isola è un presidio
di tutto rispetto, supporto da batterie di artiglieria di vario calibro, anche
antinave.
Il contingente tedesco,
costituito inizialmente da pochi effettivi, dopo il 5 agosto 1943, data di
recepimento del piano Achse da parte della 1a Divisione Gebirgsjager in Epiro,
viene portato a circa duemila uomini al comando del tenente colonnello Hans
Barge, raggruppati nel 966° reggimento di granatieri da fortezza composto dal
909° e dal 910° battaglione. In questo periodo a Cefalonia il clima fra i
contingenti contrapposti resta tutto sommato disteso. Le voci che si diffondono
fra le truppe italiane circa un’uscita di scena del Duce sono avvalorate dal
cambio di denominazione della caserma di Argostoli, da Mussolini a Vittorio
Emanuele. Più che a vere e proprie manifestazioni di giubilo per la caduta del
Duce, si può assistere a una diffusa sensazione di euforia dovuta a quello che
sembra essere il preludio alla fine della guerra e all’agognato rientro a casa.
Molto più degni di nota sono invece i riposizionamenti di truppa tedeschi.
Viene rafforzato il presidio nella stessa Argostoli, con organici del 909°
battaglione appoggiati dalla seconda batteria del 201°
Sturmartillerieabteilung, battaglione di artiglieri d’assalto con cannoni
semoventi, complessivamente otto StuG III da 75 mm e uno Stuff 42 da 105 mm. un
distaccamento e una batteria antinave germanici si spostano a sud, a Capo
Munda, da cui si controlla il lungo tratto sabbioso e dai bassi fondali di
Katelios, adatto agli sbarchi.
Antonio Gandin, comandante della 33ª Divisione fanteria "Acqui".
Il generale della LuftwaffeAlexander Löhr, comandante dello Heeresgruppe E
Le forze italiane a Cefalonia.
Quello della Acqui a Cefalonia è un dispositivo
assai articolato. Accanto a due reggimenti di Fanteria, 17° e 317° (il 18° è
a Corfù e sarà anch’esso protagonista di sanguinosi scontri), ciascuno con
tre battaglioni, una compagnia mortai da 81 mm e una batteria di
accompagnamento da 65/17, vi sono diverse truppe di supporto. Troviamo la 2a
e la 4a compagnia del 110° Battaglione Mitraglieri di Corpo d’Armata, la 76a
sezione fotoelettriche e fonosacolto, la 33a sezione auto carette, la 31a
compagnia Genio artieri e la 33a Genio Radiogratelegrafisti. Inoltre, sono
presenti la 186a e la 251a compagnia lavoratori del Genio. È presente anche
la 44a sezione Sanità, con tre ospedali da campo e un nucleo chirurgico, la
56a sezione di Sussitenza e la 9a squadra Panettieri. Aggregate alla Acqui
poi la 2a compagnia del 7° Battaglione della Guardia di Finanza. La
ragguardevole componente artiglieria della Divisione è formata dal 7° gruppo
di Corpo d’Armata (cannoni da 195/28), dal 94° gruppo di Corpo d’Armata
(cannoni da 155/36), dal 188° gruppo di Corpo d’Armata (obici da 155/14), dal
3° gruppo contraerei di Corpo d’Armata da 75/27, da un gruppo contraerei di Corpo
d’Armata da 75/27, da un gruppo obici da 100/17, dalla 33a compagnia cannoni
da 47/32 e dalla 5a batteria del 2° gruppo obici da 75/13 del 33° Reggimento
Artiglieria. La parte antiaerea è affidata a due sezioni di mitragliere da 20
mm, quella anticarro a due sezioni di cannoni da 75 mm. A Cefalonia è
presente anche il Comando Marina Argostoli, da cui dipendono una flottiglia
di dragaggio, la 37a, una squadriglia di siluranti MAS, il 10° gruppo
antisommergibili e il 3° gruppo motovelieri per la vigilanza foranea. Tutte
queste unità lasceranno l’isola prima dell’inizio dei combattimenti. L’ultima
imbarcazione a salpare per l’Italia sarà. Nella notte fra il 18 e il 19
settembre, un motoscafo veloce della Croce Rossa con l’obbiettivo di chiedere
aiuti. La Marina dispone inoltre di un proprio dispositivo di artiglieria,
costituiti da una batteria contraerei da 76/40, una batteria antinave da
152/40 e una da 120/50, in allestimento. L’Aviazione ha due idrovolanti, i
trimotori da ricognizione a lungo raggio Cant Z.506. Anch’essi lasceranno
l’isola prima dei combattimenti.
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Una motozattera, la F456, simile a quelle coinvolte nel combattimento di Argostoli
LA TENSIONE CRESCE. È il reduce delle Acqui
Giovanni Capanna a descrivere l’8 settembre a Cefalonia: “Si udì il suono delle campane provenienti da Argostoli e dai paesi
vicini. L’incredulità lasciò il posto a un entusiasmo indescrivibile: si
tornava a casa! Era semplicemente questo per noi il significato della parola
armistizio. Poco dopo trapelò qualcosa in più anche sul testo letto da Badoglio
alla radio. Avremmo imparato a nostre spese il senso della frase: le forze
italiane reagiranno ad altri attacchi da qualsiasi provenienza essi giungano”.
La mattina del 9
settembre, mentre Vittorio Emanuele III, Badoglio e tutto lo Stato Maggiore
sono in fuga, diretti in auto verso l’Abruzzo, per imbarcarsi da Ortona alla
volta dell’Italia del Sud, in mani alleate, Gandin riceve a Cefalonia gli
ordini dal Comando italiano di Atene, dipendono le altre 30 Divisioni schierati
nei Balcani. Si tratta del cosiddetto Promemoria 2, diramato dal Comando
supremo italiano il 7 settembre. Il documento stabilisce una sorta di passaggio
di consegne graduale con le truppe tedesche, in accordo con i rispettivi
comandi, al fine di presidiare le postazioni di artiglieria e quelle difensive,
“sempre che da parte tedesche non vi siano atti di forza”. Si ribadisce nel
testo di non fare causa comune con i ribelli né tantomeno con gli
angloamericani. Nelle ore seguenti, ad alimentare l’indecisione, Gandin riceve
da Atene un secondo ordine del Comando d’Armata, che ribadisce di non opporre
resistenza agli angloamericani e di reagire a eventuali attacchi dei
partigiani. Differenti invece le disposizioni verso i tedeschi, con cui bisogna
collaborare, cedendo loro i presidi costieri entro il 10 settembre e
consegnando le armi pesanti e collettive. Con solo l’armamento individuale al
seguito, inoltre, le nostre truppe dovranno concentrarsi in zone specifiche in
attesa dell’imbarco per l’Italia. Gandin non si fida di questo secondo ordine.
conclude che probabilmente il Comando d’Armata, sotto pressione tedesca, è
stato costretto a diramarlo. Da ufficiale esperto analizza la situazione. Il
nuovo governo Badoglio ha scarsa autorità, quindi è difficile aspettarsi aiuti
dall’Italia. Gli alleati, dopo la Calabria, sono appena sbarcati anche a
Salerno, ed è molto improbabile per loro l’ipotesi dell’apertura di un nuovo
fronte a Cefalonia. In ultima analisi, la Acqui può confidare soltanto sulle
proprie forze. Essa potrebbe inizialmente prevalere ma, non potendo contare su
rinforzi e rifornimenti, non avrebbe poi alcuna possibilità di mantenere le
posizioni contro sbarchi in forze nemici e attacchi aerei. Gandin convoca i
comandanti divisionali per tastare loro il polso. Il grosso dei suoi subalterni
si dice disposto a seguire le indicazioni del generale Vecchiarelli. Fanno
eccezione alcuni ufficiali della marina e dell’artiglieria, propensi invece
allo scontro con i tedeschi. in questa fase Gandin probabilmente è ancora
convinto che un confronto armato con l’ex alleato si possa evitare. Confidando
nei buoni rapporti con i tedeschi che aveva stabilito negli anni passati e nel
suo ascendente personale, decide di avviare una serie di trattative per una
resa onorevole e, probabilmente, anche per guadagnare tempo.
Processo di Norimberga: Lanz è il terzo da destra nel banco degli imputa
L'eccidio di Cefalonia ha tuttora un solo colpevole: il generale Hubert Lanz, capo del XII Corpo d'armata truppe da montagna della Wehrmacht dall'agosto 1943 all'8 maggio 1945[7], venne infatti condannato dal tribunale di Norimberga a 12 anni di reclusione, sebbene ne abbia poi scontati solo tre (la pena fu così mite perché, incredibilmente, nessuno si presentò da parte Italiana a testimoniare al processo). Nel 1957 in Italia furono prosciolti (secondo alcuni per non danneggiare l'immagine dell'esercito[62]) degli ufficiali della Acqui accusati di aver aizzato gli uomini contro i tedeschi dando così origine ai combattimenti e sempre nello stesso anno si iniziò un altro processo nei confronti di 30 ex soldati tedeschi, risoltosi un anno dopo con un nulla di fatto[63].
Nel 1964 anche la Germania aprì un'inchiesta sulla vicenda una volta ricevuto del materiale da Simon Wiesenthal, ma quattro anni dopo la procura di Dortmund archiviò il caso per riaprirlo nel 2001, prendendo in esame sette ex ufficiali della Wehrmacht. Tra questi figurava anche Otmar Muhlhauser, capo del plotone di esecuzione che fucilò Gandin, prosciolto dalla procura di Monaco di Baviera nel settembre del 2007 perché reo di aver commesso un omicidio "semplice", non rientrante nella categoria di crimini di guerra; stessa sorte subirono gli altri sei imputati[63]. Dietro la segnalazione di due donne italiane che persero il padre a Cefalonia, la procura militare di Roma aprì un nuovo fascicolo il 2 gennaio 2009 chiamando al banco degli imputati il solo Muhlhauser, ma non si poté fare molto perché il 1º luglio dello stesso anno l'ex militare tedesco, ormai ottantanovenne, morì, e così il processo terminò il 5 novembre (data del rinvio per accertare le condizioni di salute dell'imputato)[63].
All'inizio del 2010 il tribunale militare di Roma ha iniziato una nuova azione legale nei confronti di Gregor Steffens e Peter Werner, entrambi ottantaseienni ed appartenuti al 966º Reggimento Granatieri da fortezza, accusati di aver ucciso 170 soldati italiani che si erano arresi. Sentiti già dalla procura di Dortmund nel 1965 e nel 1966 alla quale si erano dichiarati innocenti, i due ex militari hanno fatto altrettanto a Roma e al momento le indagini sono ancora in corso[64].
Il 18 ottobre 2013 il Tribunale militare di Roma ha riconosciuto la responsabilità penale del caporale della Edelweiss Alfred Stork condannandolo all'ergastolo per il massacro compiuto nel settembre del 1943 sull'isola di Cefalonia in esecuzione dello specifico ordine di Hitler e in spregio delle convenzioni internazionali che, anche all'epoca dei fatti, imponevano un trattamento umano dei militari che avevano ormai deposto le armi; Stork a suo tempo aveva confessato di aver preso parte alle fucilazioni degli ufficiali della divisione Acqui a Cefalonia nel settembre del 1943.
La battaglia
di Cefalonia in 4 fasi.
Prima fase: la
disposizione dei reparti a Cefalonia alla proclamazione dell’armistizio. La
penisola di Paliki, a ovest, è occupata dai tedeschi, 2mila uomini in tutto.
Il Comando germanico ha sede a Lixouri, il secondo centro dell’isola.
Contingenti tedeschi si trovano anche a nord, a presidiare il porticciolo di
Fiskardo e a sud, con una batteria a Capo Munda. Ad Argostoli, il capoluogo,
ci sono altri tedeschi e il gruppo semoventi. Il grosso dell’isola è in mano
italiana, 12mila uomini circa. Il Comando di Gardin verrà avanzato all’inizio
degli scontri da Argostoli a Prokopoata, bandiera tricolore triangolare.
Seconda fase:
Dopo i primi successi italiani del 15 e 16 settembre 1943, la superiorità
aerea e i rinforzi sbarcati a nord, Aghia Kiriaki, e in altre zone, cambiano
radicalmente i rapporti di forze a favore dei tedeschi. Gli italiani si
battono duramente per cercare inutilmente di riconquistare il nodo strategico
di Kardakata a nord, sotto la baia di Aghia Kiriaki, e il monte Kutzuli più a
est, ma vengono sopraffatti e respinti dai tedeschi, i quali cominciano a
muoversi su due direttrici principali di marcia per intercettare il massimo
degli uomini di Gandin.
Terza fase: la
manovra tedesca è ordita in modo perfetto e supportata egregiamente dagli
Stuka. Nel vano tentativo di proteggere Argostoli, devastata dai
bombardamenti, nonché la piana di San Gerasimo, fra Frankata, Valsamata e
Troianata, dove sono ubicati gli ospedali da campo e gli altri reparti non
combattenti, gli ultimi resti dei battaglioni di fanteria itlaiana si
immolano contro il 910° da Fortezza e le tre colonne di Gebirgsjager agli
ordini del maggiore Von Hirschfeld, che scendono da nord. Gandin intanto ha
arretrato il suo Comando a Villa Valianos, nell’abitato di Keramiés.
Quarta fase:
siamo all’epilogo. Il 910° il 1°/724° battaglione Gebirgsiahger arrivano ad
Argostoli lungo la direttrice costiera da Kardakata, nonché dal passo Kolumi,
difeso fino alla fine dal II battaglione del 17° reggimento di fanteria
italiano. Gli altri reparti germanici, provenienti da Troianata, chiudono la
tenaglia, catturando Gandin a Keramiés. Sono le 16 del 22 settembre 1943.
Dirigendosi verso Argostoli, i tedeschi completano l’opera di rastrellamento
degli italiani dislocati a ovest del capoluogo dell’isola.
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IL FATTACCIO COMPIUTO. Gandin in questi giorni
sarà terribilmente sotto pressione, stretto fra la sua valutazione strategica
circa l’esito di uno scontro diretto con i tedeschi, le pressanti richieste
germaniche tese a una risoluzione rapida della situazione e il sempre crescente
malumore proveniente soprattutto da alcuni ufficiali, desiderosi di battersi. I
giorni della trattativa, dal 10 al 13 settembre, scorrono febbrili, dominati da
un crescente nervosismo. La cessione ai tedeschi del nodo stradale strategico
di Kardakata, avvenuta in segno di collaborazione all’avvio dei negoziati,
alimenta le voci che descrivono il generale addirittura come tedescofilo. Si
verificano forti episodi di intolleranza. Non aiuta la pretesa tedesca dell’11
settembre della consegna delle armi da parte dei nostri reparti schierati in
piazza Valianos, in pieno centro di Argostoli, umiliandoli così davanti ai
civili greci. La tensione è altissima. Il capitano Gazzetti, del Comando di
Divisione, viene ucciso da un maresciallo di marina. Un carabiniere getta come
atto intimidatorio una bomba a mano, che non esplode, nell’auto dello stesso
Gandin durante un’ispezione. In queste febbrili giornate il Generale consulta
anche i cappellani militari della Divisione per avere sentore dello spirito del
grosso della truppa. I ripetuti tentativi di insubordinazione non sfuggono però
ai tedeschi, i quali temono che la situazione possa scappare di mano a Gandin.
All’alba del 13 settembre avviene il cosiddetto fattaccio compiuto, cioè
l’apertura del fuoco su due motozattere tedesche dirette ad Argostoli a opera
di ufficiali di Artiglieria e della Marina. Ancora oggi l’evento genera forti
dispute tra chi sostiene che esso vada inteso come l’atto di insubordinazione e
di aggressione alla base degli avvenimenti che portarono alla reazione tedesca
e alla rappresaglia, o, al contrario, come il primo atto della resistenza al
Tedesco.
Poco dopo il grave
episodio giunge in volo personalmente il generale Humbert Lanz comandante del
22° Corpo d’Armata tedesco. Perdurando il clima di euforia dei nostri
artiglieri, anche Lanz viene accolto a cannonate e il suo idrovolante ripara
non senza difficoltà a Lixouri, in mano germanica. Il tedesco, furioso, chiama
Gandin per chiedere spiegazioni circa l’evidente atto di ostilità costituto dal
cannoneggiamento ai natanti, con l’affondamento di uno di loro e diverse perdite.
Gandin avrebbe risposto di aver perso l’autorità nei confronti di alcuni
ufficiali e asserito, comunque, di considerarsi legato al giuramento del Re.
Lanz rinnova alle 12 del 14 settembre l’ultimatum per la consegna delle armi.
Nella notte il comando di Brindisi invia a Gandin l’ordine di resistere a ogni
tentativo di disarmo da parte dei tedeschi (da rimarcare che il governo
Badoglio aspetterà fino al 13 ottobre per dichiarare guerra alla Germania).
Gandin, i suoi e migliaia di altri soldati nei vari fronti, senza un formale
atto di guerra, verranno considerati dai tedeschi franchi tiratori, e quindi
ribelli, con tutte le conseguenze del caso, compresa la condanna a morte. Il 14
settembre gli Stuka sorvolano Cefalonia lanciando volantini che invitano gli
italiani alla resa, “chi non si arrenderà non potrà fare ritorno”. È l’ultimo
avviso.
L’ANNIENTAMENTO DELLA ACQUI. La lotta che si
sussegue a Cefalonia dal 15 al 22 settembre 1943 vede nei primi due giorni una
iniziale supremazia italiana, soprattutto per attacchi notturni, durante i
quali i tedeschi non possono contare solo sugli aerei. I battaglioni del 966°
da fortezza sono in estrema difficoltà. Ad Argostoli vengono catturate diverse
centinaia di tedeschi e l’intera squadra semoventi. Le fotoelettriche e
l’artiglieria delle batterie di Esercito e Marina neutralizzino un tentativo di
sbarco germanico nel capoluogo. Gli italiani si prodigano per trarre a riva
naufraghi e feriti. I tedeschi recuperati, insieme a quelli catturati ad
Argostoli, vengono sistemati in un campo di prigionia ai lati del quale, per
evitare che gli Stuka possano bersagliare i loro camerati, sono sistemate delle
vistose bandiere naziste. Il colonnello Barge, comandante della guarnigione, è
costretto a chiedere rinforzi. Li ottiene, ma viene di fatto destituito dal
generale d’Armata Lohr. Come aveva previsto Gandin, alla Acqui, priva di
appoggio aereo e nell’impossibilità di ricostruire le scorte di materiale e
rimpiazzare le perdite, la Wehrmacht, i Gebirgsjager, fanteria leggera da
montagna, truppe agili e ben armate, in grado di muoversi velocemente su un
terreno aspro come quello di Cefalonia. Essi appartengono a due
Gebirgs-Divisionen. Della 1a “Edelweiss” sono il 3° battaglione del 98°
Reggimento artiglieria da montagna e il 1° battaglione del 724° Reggimento
cacciatori sono inquadrati nella 104a Jager-Division. Dal 16 al 18 settembre
1943, dopo i violenti scontri nel nord dell’isola, fra il nodo di Kardakata, il
monte Kutzuli e la direttrice da ponte Kimonico a Divarata, l’iniziativa passa
ai tedeschi. fra il 18 e il 19 settembre il generale Gandin, forse temendo
altri sbarchi a sud, invia due compagnie del 17° Fanteria per un attacco
notturno alle postazioni tedesche di Capo Munda. L’assalto non ottiene i
risultati sperati. I tedeschi, artiglieri di marina, resistono dietro ben tre
linee di difesa. Al mattino, a combattimenti ancora in corso, arrivano anche
gli Stuka. Agli italiani non resta che la ritirata. Lasciano sul terreno una
sessantina fra morti e feriti, i quali saranno passati per le armi dati
tedeschi. La relativa calma del 20 prelude all’attacco finale germanico, una
manovra a tenaglia eseguita alla perfezione. Il 910° battaglione da fortezza si
dirige verso Argostoli lungo la principale strada costiera, mentre gli Jager,
in due colonne, scendono veloci lungo i costoni centrali dell’isola e la
vallata interna di San Gerasimo, distruggendo ogni reparto si opponga ad essi.
Il 22 settembre le truppe da montagna germaniche completano l’accerchiamento,
catturando a Keramiés il generale Gandin e tutto il suo comando, ubicato a
Villa Valianos. Su un balcone, come bandiera bianca, sventola una tovaglia da
cucina. La resa viene firmata da Gandin nel salone, su un grande tavolo di
marmo bianco. Subito dopo, in una Argostoli devastata dagli incendi e dai
bombardamenti, i germanici si ricongiungono ai camerati provenienti dal nord:
la Acqui ha cessato di esistere. In maniera davvero singolare: i tedeschi annotano
che “durante gli scontri tutti gli italiani sono stati uccisi in combattimento,
tranne quelli adibiti al trasporto di munizioni”.
UN AFFRONTO IMPERDONABILE. Le cifre sulle
fucilazioni ed esecuzioni sommarie sono ancora oggi oggetto di dibattito, ma
nulla tolgono alla gravità del comportamento tenuto dai tedeschi. Oltre questo,
restano aperti altri interrogativi. Possiamo intendere nella vicenda e nel suo
tragico epilogo l’esaltazione del patriottismo e dello spirito antidesco? E
ancora, i Gebirsjager presenti a Cefalonia, molti dei quali austriaci, sono le
truppe alpine della Wehrmacht, non delle spietate SS. Possono bastare il
sentimento anti-italiano e l’odio per l’ex alleato traditore a farne dei
criminali di guerra?
La lettura dei fatti da
parte italiana, vale a dire la reazione per spirito patrio, appare altrettanto
schematica almeno quanto l’interpretare il comportamento dei tedeschi come
standardizzate espressione della ferocia nazista. L’analisi è senz’altro più
complessa. Per gli italiani è necessario scindere il punto di vista degli
ufficiali da quello dei soldati. Se per i primi valgono il rispetto del
giuramento al re e il senso dell’onore, quest’ultimo tanto forte per alcuni di
loro da indurli a gravi insubordinazioni, nulla di tutto ciò si può affermare
per la truppa, dove prevale il semplice desiderio di tornare a casa, con le
proprie armi e intatto l’onore dei soldati. La massa della Divisione quindi
combatte perché vuole abbattere l’unico ostacolo che si frappone fra essa e il
rientro in Italia: i tedeschi. I Gebirgsjager invece sono convinti di sbrigare
velocemente la questione, persuasi di trovarsi di fronte a truppe che si
lasceranno disarmare facilmente, o al massimo, in caso di reazione si
sfalderanno rapidamente. Lo scontro invece si rivela difficile perché tutta la
Acqui combatte duramente. Interi reparti attaccano e si lasciano decimare con i
loro ufficiali in testa. Gli italiani a Cefalonia non cedono, anzi
contrattaccano! Ciò rappresenta un precedente pericoloso in una potenziale
polveriera come i Balcani, dove sono centinaia di migliaia i soldati italiani
ancora inquadrati e in armi. Ecco quindi disvelarsi forse la chiave di tutto.
Gli italiani si battono, nella speranza di tornare a casa, tanto duramente da
mettere in difficoltà il nemico. Un affronto che la Wehrmacht non può
permettersi di accettare. Quegli uomini in grigioverde che hanno osato tanto
vanno eliminati.
Articolo in gran parte di Francesco Fagnani
pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 22 sprea editori. Altri testi e
articoli da Wikipedia.