Diana signora delle selve.
Era una delle più
antiche e seducenti divinità italiche. A lei, nel bosco di Nemi, a sud
dell’Urbe, era dedicato un antichissimo culto che esponeva la vita
dell’officiante a un costante pericolo.
Statua di Diana/Artemide con un capriolo, copia romana di originale ellenistico. Parigi, museo del Louv
Lucas Cranach il Vecchio, Diana in riposo, primo quarto del XVI secolo, Besançon, Musée des Beaux-Arts.
Diana,
il cui nome arcaico era forse Diviana (dall’aggettivo divias, divino), era
un’antichissima dea delle popolazioni italiche: non solo dei Latini, ma anche
dei Sabini, Equi ed Ernici, anch’essi abitanti del Lazio. Era la signora delle
selve, protettrice degli animali selvatici e custode delle fonti e dei corsi
d’acqua. Inoltre, aiutava le donne durante il travaglio e veniva invocata
perché i parti non fossero troppo dolorosi. Solamente in epoca tarda, in
ragione di alcune similitudini, venne identificata con la greca Artemide e con
la dea Luna. In origine, era invece una divinità della luce del giorno, che
penetra nella foresta attraverso il fogliame.
UN CULTO OSCURO. Il suo culto era
diffuso in tutta la regione dei Colli Albani, a sudest di Roma, in una zona
anticamente vulcanica, e si localizzava principalmente nei pressi di Aricia
(l’attuale Ariccia), da cui le veniva il nome di Diana Aricina. Aricia, la cui
origine, secondo la tradizione tramandata anche da Ovidio, è legata a Ippolito,
figlio di Teseo, era stata fondata molto prima dell’Urbe (il geografo tedesco
Philipp Cluver, nella sua opera Italia antiqua, pubblicata nel 1624, ipotizza
addirittura una data precedente al 2000 a.C.) e custodiva tradizioni e riti
religiosi arcaici. In particolare, Diana era venerata in un boschetto sacro,
nei pressi del lago di Nemi, conosciuto come Speculum Dianae.
L’officiante del culto,
come ricorda James Frazer (1854-1941) nel suo saggio Il ramo d’oro, era il rex
Nemorensis, il re di Nemi, che viveva nel bosco affacciato sulla sponda del lago.
La leggenda riguardante questo re-sacerdote è contenuta in diverse fonti
antiche (per esempio nei Fasti di Ovidio) e racconta che il ruolo di sovrano
delle selve spettava a uno schiavo sfuggito al padrone, che otteneva l’onore
della carica sacerdotale uccidendo il suo predecessore in un duello rituale e
poteva conservare il prestigioso ruolo solo fino al giorno in cui fosse
riuscito a difendere il suo rango contro i nuovi sfidanti. Si trattava di una
tradizione oscura, di cui i Romani stessi faticavano a trovare l’origine. Così,
per trovarle una spiegazione, avevano inventato la leggenda secondo cui
Ippolito, figlio di Teseo, mitico fondatore di Atene, sarebbe stato costretto a
fuggire dalla Grecia dopo essere stato accusato di stupro dalla matrigna, Fedra.
Ippolito si rifugiò in territorio italico, nel Lazio, e prese dimora nel bosco
dedicato a Diana. La dea gli cambiò nome in Virbio (probabilmente derivato da
vir bis, “uomo doppio” o “uomo nato due volte”, in relazione alla sua nuova
identità), facendo di lui il suo primo sacerdote. In seguito, Ippolito avrebbe
sposato una donna del luogo, Aricia, e fondato la città a cui avrebbe dato il
nome della moglie. Dalla coppia sarebbe nato un figlio, chiamato anch’esso
Virbio, che sarebbe succeduto al padre nel ruolo di rex Nemerensis.
Il
volto tenebroso della Dea.
Come
accaduto a molte altre divinità antiche, anche Diana, nel corso del tempo,
subì una lenta trasformazione di significato. Se in origine era legato alla
luce diurna, in epoca imperiale finì per essere associata a quella della Luna
e alle tenebre della notte. Questo fece si che quando il pagamento cedette il
passo al cristianesimo, la dea si trasformasse in una divinità malefica, al
punto da divenire, in epoca medievale, una figura demoniaca. La ragione va
ricercata nella sopravvivenza dei culti pagani e dei riti di fertilità,
praticati soprattutto nelle campagne anche dopo la definitiva
cristianizzazione del mondo romano. La nuova religione colpì in particolar
modo le divinità femminili in cui sopravviveva il culto delle dee madri, che vennero
sostituite dalla Vergine Maria. Diana, in quanto divinità lunare fu così
associata alla stregoneria e considerata oggetto di devozione da parte delle
donne possedute da Satana.
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COPPIA DIVINA. Al di là della leggenda (ripresa
anche da Virgilio, che fa del figlio di Virbio uno degli alleati di Turno nella
guerra contro Enea), è probabile che lo stesso Virbio fosse un essere
semidivino, o comunque un nome legato alle selve e alla vegetazione. Primo
sacerdote di Diana nel boschetto di Nemi, fu lui a istituire la tradizione
secondo cui il ruolo di sacerdote veniva conteso con un duello alla spada.
Prima di affrontare il rex Nemorensis in carica, il pretendente doveva però
staccare un rametto (forse di vischio, identificato in seguito con il ramo
d’oro che permette a Enea la discesa nell’Ade) da uno specifico albero del
bosco. Secondo Frazer, Virbio era uno spirito degli alberi, a cui normalmente
era vietato l’ingresso nella selva sacra a Diana. Si trattava probabilmente di
un bosco di querce, alberi sacre a Giove, ragione per cui è stata avanzata
anche l’ipotesi che il re del bosco (Virbio) fosse una sorta di “Giove locale”,
oppure il dio delle acque di Nemi. In ogni caso, la coppia formata da Diana
(divinità femminile) e Virbio (divinità maschile) era legata alla fertilità,
alla vegetazione e alla natura in perenne rinnovamento. La morte stessa del re,
appare come una forma di sacrificio umano più o meno mascherato, si
collegherebbe a culti di rinascita legati alla vegetazione, diffusi in molte
altre parti del mondo, dove è sempre una divinità a morire e poi rinascere. Il
luogo sacro di Nemi, ricordato anche da scrittori di età imperiale come
Vitruvio, Appiano e Svetonio (che, nelle Vite dei Cesari, narra di come l’imperatore
Caligola, stanco di un sacerdote che officiava il culto da troppo tempo, cercò
egli stesso un competitore in grado di sconfiggerlo), era uno dei più
importanti del Lazio, sorto forse come santuario della Lega Latina.
A Roma, il culto di
Diana Aricina si officiava invece sul colle Aventino, dove sorgeva un tempio a
lei dedicato, con feste che si celebravano alle Idi di agosto (il giorno 13).
Che Diana fosse una divinità arcaica e di grande importanza è dimostrato anche
dal fatto che, nel suo santuario, si conservavano importanti leggi e tratti di
alleanza.
FIACCOLE E VERGINI. Diana era anche una
divinità della luce, ma più per ragioni etimologiche (il suo nome potrebbe
derivare dal termine arcaico dius, “della luce”, o da dies, “la luce del
giorno”) che per i riti che ne accompagnavano il culto, come la fiaccolata
delle donne da Roma ad Aricia. Il culto della divinità era associato a quello
di silvano, dio dei boschi. Come lui, Diana cacciava e proteggeva chiunque
abitasse le selve: non soltanto le piante, quindi, ma anche gli animali. Quelli
a lei sacri erano il cane e la cerva, mentre i suoi attributi erano l’arco e la
fiaccola.
La dea, inoltre, era la
protettrice della plebe e degli schiavi. Presso il tempio dell’Aventino si
trovava un asilo per gli schiavi fuggiti (un luogo simile esisteva anche a
Nemi), il che spiega perché il dies natalis (o giorno festivo) di Diana era
detto anche servo rum dies festus (festa degli schiavi).
La dea era associata
anche a un’altra divinità secondaria, la ninfa Egeria, leggendaria consigliera
del re Numa Pompilio. Dopo la morte del sovrano, sarebbe stata proprio Diana a
trasformare in fonte l’inconsolabile Egeria, distrutta dal lutto. Divinità
vergine per eccellenza (e proprio per questo in grado di garantire la continua
rigenerazione della natura), Diana era anche la protettrice delle fanciulle
che, se morivano delle nozze, venivano considerate pari alla dea.
Articolo in gran parte
di Edwar Foster pubblicato Civiltà Romana n. 3 – altri testi e foto da
wikipeida.
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