L’honesta Imperia
Storia della
cortigiana più celebre della Roma del ‘500, amante e musa di artisti, nobili,
cardinali. Donna bellissima, ma anche colta e raffinata.
Il
rumore dei carri e delle carrozze e il vociare sempre più intenso che salivano
dalla strada la costrinsero ad aprire gli occhi. Quella città diventava ogni
giorno più chiassosa e invivibile, persino in quel quartiere. Si era trasferita
lì da un annetto, ma ormai neppur la bellezza del suo lussuoso appartamento in
Via Giulia, non lontano dal Campo de’ Fiori, la confortava più “non era colpa di Roma. Non soltanto almeno”
pensava Lucrezia Cognati. Era la sua vita che le era diventata
intollerabile: la vita della cortigiana più amata di Roma rinascimentale,
amante e musa di immensi artisti e letterati del XVI secolo. La cortigiana che
tutti conoscevano con il nome d’arte di Imperia.
FIGLIA D’ARTE. Scivolò giù dal letto e cominciò la
toeletta quotidiana, tipica di tutte le sue colleghe: con un tovagliolo di lino
si strofinò i denti, poi si sciacquò la bocca e, quando entrarono le serve per
farle il bagno, il turbamento del risveglio si sciolse nell’aroma fiorito
dell’acqua. Indugiò a lungo nella vasca, poi si tirò su e le donne si
affrettarono ad asciugarla, a limarle le unghie e a profumarla. Imperia si
osservò allo specchio. Aveva compiuto trentuno anni il 3 agosto 1512, “nove
giorni fa” calcolò.
Presto nessuno
l’avrebbe più desiderata, nessuno avrebbe cercato i suoi favori di giorno e il
suo corpo di notte. Persino il suo Agostino si era trovato un’amante più
giovane. Sarebbe tornata presto a essere una Lucrezia qualunque, sarebbe finita
a fare l’affittacamere in una bettola, o peggio, una lavandaia. Oppure a
chiedere l’elemosina sui gradini di una chiesa. Quante se ne vedevano di
sfortunate così, in giro! Non fosse stato per lei, probabilmente anche sua
madre, Diana Cognati, avrebbe fatto quella fine.
Cortigiana a sua volta,
la donna aveva visto, in quel fagottino rosa che la levatrice le aveva posto
tra le braccia il 3 agosto 1481, la garanzia di una buona pensione: scelse
infatti di avviare la figlia al suo stesso mestiere. Sul finire del
Quattrocento, la loro casa di piazza Scossavalli diventò così il salotto della
giovane Lucrezia: qui, a quattordici anni, persa la verginità. Il suo primo
cliente, un giovanotto ricco quanto sprovveduto, venne spennato in meno di un
mese. E mentre la madre e il patrigno investivano il denaro acquistando
immobili e terreni, lei metteva al mondo una figlia col suo stesso nome:
Lucrezia. Ma nel frattempo si dava da fare per farsi una cultura da prostituta
“honesta”.
Studia, fanciulla. Cos’avevano le
“honeste” che le altre non avevano? Dovreste chiederlo a Johannes Burckardt,
maestro di cerimonie di papa Alessandro VI, che questa definizione se l’era
inventata per distinguere da tutte le altre le meretrici dotate di buone
maniere e di un certo livello culturale che spesso bazzicavano anche la corte
papale. Una “honesta” era in grado di conversare amabilmente e di intrattenere
i propri selezionatissimi clienti con piccanti doppi sensi, recitando antichi
versi o suonando. Molte di loro, inoltre, avevano un nome d’arte, che
richiamava la classicità greca e latina.
“Diventare
meretrix honesta era l’aspirazione massima per alcune prostitute, che
arrivarono a fregiarsi di quel titolo per farsi pubblicità e per garantire ai
clienti un certo tipo di intrattenimento”, scrive Cinzia
Giorgio nel saggio Storia erotica d’Italia (Newton Compton). Ma richiedeva
studio e impegno. Come si accorse presto Lucrezia, affidata agli insegnamenti
di Niccolò Campani, letterato e giullare di corte. Metà poeta e metà buffone,
questo senese non era molto apprezzato dagli umanisti dell’epoca, ma per
Lucrezia era stato un buon maestro. Oltre alle lettere, infatti, conosceva bene
anche le corti, l’ambiente in cui la sua discepola avrebbe trovato i migliori
clienti. Tant’è che, poco più che ventenne, Lucrezia era già una delle
cortigiane più amate di Roma, la prima fra le quasi 7mila prostitute dell’Urbe
(in media una ogni dieci abitanti). Da allora erano passati una decina d’anni.
Imperia si riscosse dai suoi pensieri. Doveva sbrigarsi: era domenica e non
poteva far tardi alla messa.
In chiesa in prima fila. Con sapienza si sparse
un po’ di rosso sulle guance, mentre le serve la aiutavano a mettere uno dei
suoi preziosi abiti di seta e le perle tra i capelli biondi. Sull’abito
scollatissimo indossò due catene d’oro. Era pronta. Scese in strada e in capo a
pochi minuti si raccolse intorno a lei un nugolo di ammiratori. “Imperia girati di prego” “Imperia guardami…”.
Ma Imperia non guardava nessuno: il vecchio trucco delle cortigiane.
Passeggiava altera e tranquilla, diretta alla chiesa di Sant’Agostino in Campo
Marzio, dove si raccoglieva la maggior parte delle sue colleghe. Stavano tutte
sulle panche in prima fila, loro riservate per non distrarre gli altri fedeli. “Le cortigiane erano assidue frequentatrici
di chiese, dato che era anche questa un’eccellente forma di pubblicità, forse
la migliore”, scriveva l’autrice britannica Georgina Masson nel suo saggio
Cortigiane italiane nel Rinascimento. E, anziché essere viste di malocchio
dalle autorità ecclesiastiche, le loro visite erano benaccette, “perché la loro presenza serviva a riempiere
le chiese”. Mentre il prete parla, Imperia vaga con la mente, ripensando ai
suoi amanti e spasimanti: Tommaso Inghirami, il bibliotecario del papa, un
omone che dopo un litigio buttò giù la porta che lei gli aveva sbattuto in
faccia: il suo Porzio, cioè l’arcivescovo di Carpentras Giacomo Sadoleto; il
poeta Bernardino Cappella, grande conoscitore dei classici che dalla loro
frequentazione aveva tratto ispirazione per alcune scollacciate composizione in
versi.
E ancora: Fausto Evangelista
Maddaleni Capodiferro, un altro fissato con gli epigrammi piccanti: l’umanista
Angelo Colocci (futuro tesoriere pontificio), che le aveva donato una statuina
d’oro di Venere e le aveva suggerito il nome d’arte d’Imperia l’imperatrice
delle più belle, paragonabile solo alla dea della bellezza. Risaliva a non più
di 4 anni prima la frequentazione con il pittore Raffaello Sanzio, suo
coetaneo: pare che un giorno si fosse lasciato prendere dalla furia e dallo
sconforto, gridando che non avrebbe mai finito il Trionfo di Galatea se Imperia
non avesse posato per lui. Qualcuno dice anche che lei si fosse dell’artista,
che invece l’aveva soppiantata con la celebre Fornarina. Questi e tanti altri
erano accorsi al suo salotto, tra tappezzerie di broccato e velluto intessuto
d’oro, mobili preziosi e tappeti. Il lusso che la circondava era tale che, come
riferì l’ambasciatore di Ferrara in una lettera al cardinale Filippo d’Este,
l’ambasciatore spagnolo Enriquez de Toledo che era andato a farle visita e
aveva finito per sputare in faccia al suo servo per non sporcare la casa: “Non
te la prendere, ma qui non c’è nulla di più brutto del tuo viso”, gli aveva
detto.
Le donne più giovani
l’avevano spodestata nel cuore e nel letto dei suoi spasimanti. E questo era
difficile sopportarlo.
Lusso estremo. Imperia aveva messo parte una
piccola fortuna investendo i frutti del suo lavoro. Non solo: godeva di
innumerevoli attenzioni da parte dei suoi ammiratori, che le donavano guanti di
velluto, anelli, vesti greche, pantofole d’oro, lini, profumi. Alle spese più
onerose, poi, pensavano i suoi ricchi amanti. Per uno di loro perse davvero la
testa: il cavaliere Angelo del Bufalo, un patrizio romano sposato alla sorella
di un futuro cardinale. Fu il suo grande amore, ma non ricambiato: senza
pensarci troppo, nel 1508, lui cedette spontaneamente ad Agostino Chigi il
proprio posto nel letto di Imperia. Molte cortigiane avrebbero desiderato un
amante come quel banchiere senese: all’epoca quarantatreenne, era uno degli
uomini più ricchi del suo tempo. Le
aveva regalato una casa più bella della precedente, l’aveva aiutata a
superare la lontananza dalla figlia Lucrezia, mandata nel convento di Santa
Maria in Campo Marzio perché venisse educata come “una casta e modesta
vergine”, e, due anni dopo, le aveva dato un’altra figlia, Margherita, che
aveva riconosciuto e presa con sé. Eppure oggi nessuna ricchezza poteva
consolare Imperia: tutti la desideravano, ma quanti l’amavano? “Non Angelo del
Bufalo, Raffaello Sanzio o Agostino Chigi, troppo impegnati con le loro giovani
fiamme”, rispose da solo la cortigiana.
Addio mondo. Quella notte Imperia rimase sola in
camera da letto. La mattina dopo, verso mezzogiorno, entrando nella sua stanza,
le serve la trovarono agonizzante. Due giorni dopo essersi avvelenata, il 15
agosto, morì. Sul comò aveva lasciato il testamento: a parte qualche lascito aveva
designato la figlia Lucrezia unica erede dell’intero patrimonio. Uno degli
epigrammi scritti per l’occasione recitava così: “Due dèi avevano dato a Roma
due grandi doni: Marte l’Impero, Venere Imperia … Piansero l’impero i padri,
noi pure questa piangemmo: quelli persero l’impero noi abbiamo perduto il
cuore”.
Articolo in gran parte
di Maria Leonarda Leone pubblicato su Focus storia n. 146 altri testi e
immagini da Wikipedia.
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