sabato 16 novembre 2019

L’honesta Imperia


L’honesta Imperia
Storia della cortigiana più celebre della Roma del ‘500, amante e musa di artisti, nobili, cardinali. Donna bellissima, ma anche colta e raffinata.
  Galatea di Raffaello
Il rumore dei carri e delle carrozze e il vociare sempre più intenso che salivano dalla strada la costrinsero ad aprire gli occhi. Quella città diventava ogni giorno più chiassosa e invivibile, persino in quel quartiere. Si era trasferita lì da un annetto, ma ormai neppur la bellezza del suo lussuoso appartamento in Via Giulia, non lontano dal Campo de’ Fiori, la confortava più “non era colpa di Roma. Non soltanto almeno” pensava Lucrezia Cognati. Era la sua vita che le era diventata intollerabile: la vita della cortigiana più amata di Roma rinascimentale, amante e musa di immensi artisti e letterati del XVI secolo. La cortigiana che tutti conoscevano con il nome d’arte di Imperia.

FIGLIA D’ARTE. Scivolò giù dal letto e cominciò la toeletta quotidiana, tipica di tutte le sue colleghe: con un tovagliolo di lino si strofinò i denti, poi si sciacquò la bocca e, quando entrarono le serve per farle il bagno, il turbamento del risveglio si sciolse nell’aroma fiorito dell’acqua. Indugiò a lungo nella vasca, poi si tirò su e le donne si affrettarono ad asciugarla, a limarle le unghie e a profumarla. Imperia si osservò allo specchio. Aveva compiuto trentuno anni il 3 agosto 1512, “nove giorni fa” calcolò.
Presto nessuno l’avrebbe più desiderata, nessuno avrebbe cercato i suoi favori di giorno e il suo corpo di notte. Persino il suo Agostino si era trovato un’amante più giovane. Sarebbe tornata presto a essere una Lucrezia qualunque, sarebbe finita a fare l’affittacamere in una bettola, o peggio, una lavandaia. Oppure a chiedere l’elemosina sui gradini di una chiesa. Quante se ne vedevano di sfortunate così, in giro! Non fosse stato per lei, probabilmente anche sua madre, Diana Cognati, avrebbe fatto quella fine.
Cortigiana a sua volta, la donna aveva visto, in quel fagottino rosa che la levatrice le aveva posto tra le braccia il 3 agosto 1481, la garanzia di una buona pensione: scelse infatti di avviare la figlia al suo stesso mestiere. Sul finire del Quattrocento, la loro casa di piazza Scossavalli diventò così il salotto della giovane Lucrezia: qui, a quattordici anni, persa la verginità. Il suo primo cliente, un giovanotto ricco quanto sprovveduto, venne spennato in meno di un mese. E mentre la madre e il patrigno investivano il denaro acquistando immobili e terreni, lei metteva al mondo una figlia col suo stesso nome: Lucrezia. Ma nel frattempo si dava da fare per farsi una cultura da prostituta “honesta”.

Studia, fanciulla. Cos’avevano le “honeste” che le altre non avevano? Dovreste chiederlo a Johannes Burckardt, maestro di cerimonie di papa Alessandro VI, che questa definizione se l’era inventata per distinguere da tutte le altre le meretrici dotate di buone maniere e di un certo livello culturale che spesso bazzicavano anche la corte papale. Una “honesta” era in grado di conversare amabilmente e di intrattenere i propri selezionatissimi clienti con piccanti doppi sensi, recitando antichi versi o suonando. Molte di loro, inoltre, avevano un nome d’arte, che richiamava la classicità greca e latina.
“Diventare meretrix honesta era l’aspirazione massima per alcune prostitute, che arrivarono a fregiarsi di quel titolo per farsi pubblicità e per garantire ai clienti un certo tipo di intrattenimento”, scrive Cinzia Giorgio nel saggio Storia erotica d’Italia (Newton Compton). Ma richiedeva studio e impegno. Come si accorse presto Lucrezia, affidata agli insegnamenti di Niccolò Campani, letterato e giullare di corte. Metà poeta e metà buffone, questo senese non era molto apprezzato dagli umanisti dell’epoca, ma per Lucrezia era stato un buon maestro. Oltre alle lettere, infatti, conosceva bene anche le corti, l’ambiente in cui la sua discepola avrebbe trovato i migliori clienti. Tant’è che, poco più che ventenne, Lucrezia era già una delle cortigiane più amate di Roma, la prima fra le quasi 7mila prostitute dell’Urbe (in media una ogni dieci abitanti). Da allora erano passati una decina d’anni. Imperia si riscosse dai suoi pensieri. Doveva sbrigarsi: era domenica e non poteva far tardi alla messa.

In chiesa in prima fila. Con sapienza si sparse un po’ di rosso sulle guance, mentre le serve la aiutavano a mettere uno dei suoi preziosi abiti di seta e le perle tra i capelli biondi. Sull’abito scollatissimo indossò due catene d’oro. Era pronta. Scese in strada e in capo a pochi minuti si raccolse intorno a lei un nugolo di ammiratori. “Imperia girati di prego” “Imperia guardami…”. Ma Imperia non guardava nessuno: il vecchio trucco delle cortigiane. Passeggiava altera e tranquilla, diretta alla chiesa di Sant’Agostino in Campo Marzio, dove si raccoglieva la maggior parte delle sue colleghe. Stavano tutte sulle panche in prima fila, loro riservate per non distrarre gli altri fedeli. “Le cortigiane erano assidue frequentatrici di chiese, dato che era anche questa un’eccellente forma di pubblicità, forse la migliore”, scriveva l’autrice britannica Georgina Masson nel suo saggio Cortigiane italiane nel Rinascimento. E, anziché essere viste di malocchio dalle autorità ecclesiastiche, le loro visite erano benaccette, “perché la loro presenza serviva a riempiere le chiese”. Mentre il prete parla, Imperia vaga con la mente, ripensando ai suoi amanti e spasimanti: Tommaso Inghirami, il bibliotecario del papa, un omone che dopo un litigio buttò giù la porta che lei gli aveva sbattuto in faccia: il suo Porzio, cioè l’arcivescovo di Carpentras Giacomo Sadoleto; il poeta Bernardino Cappella, grande conoscitore dei classici che dalla loro frequentazione aveva tratto ispirazione per alcune scollacciate composizione in versi.
E ancora: Fausto Evangelista Maddaleni Capodiferro, un altro fissato con gli epigrammi piccanti: l’umanista Angelo Colocci (futuro tesoriere pontificio), che le aveva donato una statuina d’oro di Venere e le aveva suggerito il nome d’arte d’Imperia l’imperatrice delle più belle, paragonabile solo alla dea della bellezza. Risaliva a non più di 4 anni prima la frequentazione con il pittore Raffaello Sanzio, suo coetaneo: pare che un giorno si fosse lasciato prendere dalla furia e dallo sconforto, gridando che non avrebbe mai finito il Trionfo di Galatea se Imperia non avesse posato per lui. Qualcuno dice anche che lei si fosse dell’artista, che invece l’aveva soppiantata con la celebre Fornarina. Questi e tanti altri erano accorsi al suo salotto, tra tappezzerie di broccato e velluto intessuto d’oro, mobili preziosi e tappeti. Il lusso che la circondava era tale che, come riferì l’ambasciatore di Ferrara in una lettera al cardinale Filippo d’Este, l’ambasciatore spagnolo Enriquez de Toledo che era andato a farle visita e aveva finito per sputare in faccia al suo servo per non sporcare la casa: “Non te la prendere, ma qui non c’è nulla di più brutto del tuo viso”, gli aveva detto.
Le donne più giovani l’avevano spodestata nel cuore e nel letto dei suoi spasimanti. E questo era difficile sopportarlo.
Lusso estremo. Imperia aveva messo parte una piccola fortuna investendo i frutti del suo lavoro. Non solo: godeva di innumerevoli attenzioni da parte dei suoi ammiratori, che le donavano guanti di velluto, anelli, vesti greche, pantofole d’oro, lini, profumi. Alle spese più onerose, poi, pensavano i suoi ricchi amanti. Per uno di loro perse davvero la testa: il cavaliere Angelo del Bufalo, un patrizio romano sposato alla sorella di un futuro cardinale. Fu il suo grande amore, ma non ricambiato: senza pensarci troppo, nel 1508, lui cedette spontaneamente ad Agostino Chigi il proprio posto nel letto di Imperia. Molte cortigiane avrebbero desiderato un amante come quel banchiere senese: all’epoca quarantatreenne, era uno degli uomini più ricchi del suo tempo. Le  aveva regalato una casa più bella della precedente, l’aveva aiutata a superare la lontananza dalla figlia Lucrezia, mandata nel convento di Santa Maria in Campo Marzio perché venisse educata come “una casta e modesta vergine”, e, due anni dopo, le aveva dato un’altra figlia, Margherita, che aveva riconosciuto e presa con sé. Eppure oggi nessuna ricchezza poteva consolare Imperia: tutti la desideravano, ma quanti l’amavano? “Non Angelo del Bufalo, Raffaello Sanzio o Agostino Chigi, troppo impegnati con le loro giovani fiamme”, rispose da solo la cortigiana.

Addio mondo. Quella notte Imperia rimase sola in camera da letto. La mattina dopo, verso mezzogiorno, entrando nella sua stanza, le serve la trovarono agonizzante. Due giorni dopo essersi avvelenata, il 15 agosto, morì. Sul comò aveva lasciato il testamento: a parte qualche lascito aveva designato la figlia Lucrezia unica erede dell’intero patrimonio. Uno degli epigrammi scritti per l’occasione recitava così: “Due dèi avevano dato a Roma due grandi doni: Marte l’Impero, Venere Imperia … Piansero l’impero i padri, noi pure questa piangemmo: quelli persero l’impero noi abbiamo perduto il cuore”.

Articolo in gran parte di Maria Leonarda Leone pubblicato su Focus storia n. 146 altri testi e immagini da Wikipedia.


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