La guerra civile
spagnola: una trappola per l’Italia fascista.
Sostenere la
ribellione di Franco in Spagna, con profusione di uomini e mezzi, avrebbe
dovuto garantire grandi vantaggi alla diplomazia dell’Italia di Mussolini,
bisognosa di affermarsi come legittimo impero e potenza europea. Franco vinse,
ma fu lì che cominciò il naufragio del fascismo.
Una colonna italiana durante la battaglia di Guadalajara
Fiat C.R.32 del XVI Gruppo Autonomo "cucaracha" scortano un Savoia-Marchetti S.M.81 in una missione di bombardamento.
Quando,
con la trionfale entrata di Badoglio in Adis Abeba il fascismo giunse
all’apogeo del suo consenso, il 5 maggio 1936, ancora parecchi nodi rimanevano
irrisolti: che per il regime fosse vitale risollevare al più presto i rapporti
con le democrazie liberali di Inghilterra e Francia, prima irritate
dall’avventurismo coloniale italiano e poi spaventate dalla portata del suo
successo, era opinione condivisa da tutti. L’Italia non poteva permettersi di
rimare isolata troppo a lungo dalle altre potenze e il suo nuovo status di
Impero, perché fosse effettivo, non poteva prescindere dalla loro approvazione.
Come ottenere questo risultato era tuttavia fonte di divergenze. Mentre i
gerarchi più conservatori predicavano cautela, il delfino di Mussolini,
Galeazzo Ciano, premeva per azioni spregiudicate, sicura che Londra e Parigi
avrebbero riconosciuto l’Impero non appena fosse balenato ai loro occhi il
rischio concreto di un avvicinamento dell’Italia a Berlino.
Hitler, consapevole di
avere tutto da guadagnare dai dissidi di Roma con i suoi storici alleati,
rimaneva alla finestra, aspettando l’occasione propizia per tentare di far
inclinare verso la Germania il baricentro della diplomazia fascista. E’ su
questo drammatico sfondo che irruppero
il 18 luglio, Francisco Franco e alcuni tra i più importanti generali
dell’esercito spagnolo, sollevandosi in armi contro la fragile Republica,
pericolosamente orientata a sinistra. Il golpe, fallito l’effetto sorpresa,
innescò rapidamente una guerra civile di vasta portata sul territorio
nazionale. Contro il legittimo governo in fase di assestamento si muoveva una
galassia composita di conservatori, integralisti cattolici e monarchici, tutti
coalizzati per restaurare la monarchia o comunque un governo di impronta
conservatrice. Inizialmente minoritaria, ma destinata a svolgere un ruolo di
primo piano all’interno della coalizione, era poi la Falange di José Antonio de
Rivera, ispirata all’ideologia fascista.
L’Italia non sostenne
in alcun modo il golpe, non era nell’interesse del Duce, il quale auspicava che
la Spagna potesse rimanere ancora a lungo uno Stato neutrale, forte e in grado
di resistere alle pressioni diplomatiche d’Oltralpe. La Francia, infatti, se
fosse riuscita ad assicurarsi l’amicizia di Madrid, in caso di guerra europea
su larga scala avrebbe potuto velocemente trasferire via Gibilterra le proprie
truppe dalle colonie africane alla madrepatria e far valere così la propria
schiacciante superiorità militare. Furono dunque tradizionali considerazioni di
politica estera quelle che più influirono sull’orientamento dell’Italia verso
la questione spagnola, specialmente dopo l’Alzamiento Nacional, quando ci si
rese conto che l’eventuale sconfitta dei ribelli avrebbe portato al consolidamento
del governo eletto, a tutto vantaggio delle sinistre più radicali, socialisti e
comunisti allora al governo in Francia. Si può quindi immaginare con quale
preoccupazione Mussolini venne a sapere che da Parigi erano stati rapidamente
inviati aerei e armi al governo repubblicano: quanti più aiuti francesi la
Repubblica avesse avuto, tanto più nettamente si sarebbe schierata a fianco
delle democrazie occidentali una volta sedata la ribellione. D’altra parte,
valeva anche l’opposto: se l’Italia avesse dato seguito alle proprie simpatie
per i nazionalisti con un sostegno concreto e questi avessero infine sconfitto
i repubblicani, senz’altro Roma sarebbe stata tutelata nei propri interessi
geopolitici.
Fu la Germania, per
prima, ad accettare le richieste d’aiuto di Franco e a trascinare con sé
l’Italia sulla via dell’intervento. Il fascismo cadde nella trappola tesagli da
Hitler, che da tempo attendeva l’occasione propizia per allontanare ancora di
più Roma da Francia e Gran Bretagna: cordialità e stima reciproche tenute
faticosamente in vita da Galeazzo Ciano fino a quel momento, nonostante le
sanzioni comminate all’Italia in seguito alla campagna coloniale in Etiopia,
con il sostegno dell’allora ambasciatore a Londra Dino Grandi, che per idee e
cultura aveva una naturale propensione per le potenze occidentali.
La collaborazione da
italo tedesca, propiziata dalla visita di Mussolini del principe d’Assia,
marito di Mafalda di Savoia, prese corpo tra agosto e settembre, quando
Mussolini affidò la responsabilità della missione italiana in Spagna al
generale Mario Roatta capo del SIM, il Servizio d’Informazione Militare. Fu lui
a tenere i rapporti con Franco e a guadagnarsene la riconoscenza, tanto che nel
1945, evaso dal carcere in cui era stato rinchiuso con l’accusa di crimini di
guerra in Iugoslavia e dell’assassinio dei Fratelli Rosselli, sarebbe potuto
riparare nella penisola iberica e lì rimanere al sicuro per decenni. Un’altra
ragione che indusse l’Italia a sostenere i golpisti di Franco fu l pronto
schierarsi con i repubblicani dell’antifascismo internazionale, dall’Unione
Sovietica agli esuli italiani. Gli stessi fratelli Rosselli, al tempo attivi in
Francia, promossero la parola d’ordine: “la guerra civile del proletariato di
Spagna è guerra di tutto l’antifascismo”. Si valutò insomma come concreto il
rischio che “l’infezione rossa”, se non stroncata subito, dopo aver attecchito
in Spagna, si sarebbe propagati ad altri stati europei. Nonostante il modesto
successo che ebbe l’intervento presso l’opinione pubblica nazionale, è indubbio
che alcuni settori specifici videro con favore il coinvolgimento dell’Italia
negli affari spagnoli. Al di là delle alte gerarchie militari, che lo
accettarono con entusiasmo, a chiederlo erano vasti settori del clero e del
mondo cattolico, spaventati dagli eccidi di matrice antireligiosa e insieme
affascinati dalla prospettiva di unirsi “alla santa cruda contra el marxismo”.
Non erano da meno le Camicie nere della Milizia, desiderose di riprendersi una
rivincita d’immagine dopo i successi del Regio Esercito in Etiopia e di
fascistizzare il conflitto, facendo della Falange spagnola il fulcro di un
nuovo Stato corporativistica sul modello italiano. In verità, Franco andava in
un’altra direzione: come dittatore si contraddistinse per l’opportunismo e per
il talento di regnare su fazioni fra loro rivali, a scapito di un reale progetto politico e i
primi a rendersene conto furono proprio alle Camicie nere. Già all’inizio del
1937 Farinacci scrisse con amarezza a Mussolini che il Caudillo non “aveva nessuna
idea precisa di quella che sarà la Spagna di domani”, che si preoccupava
“soltanto di vincere la guerra e di mantere poi, per un lungo periodo, un
governo autoritario”.
Le fasi del
coinvolgimento seguirono le previsioni del generale Faldella, che
preventivamente sondato da Roatta sulla missione rispose: “La Spagna è come una
sabbia mobile: se ci si mette dentro la mano, ci si va dentro del tutto. Se le
cose andranno male si darà la colpa a noi, se andranno bene ci si
dimenticherà”. Fino a novembre il grado d’intervento italiano fu modesto e gli
aiuti consistettero essenzialmente in armi e personale istruttore, dopodiché
Roma, preoccupata per la stasi del conflitto, decise di alzare la posta nella
speranza di provocare uno scossone decisivo alla contesa spagnola. Fu così che,
tra dicembre e febbraio, il CTV, il nuovo Corpo Truppe Volontarie, raggiunse le
48.823 unità, per tre quinti Camicie nere. Lo componeva una massa eterogenea,
poco addestrata, scarsamente coesa, anche se bene armata. Contro il parere
dello stesso Franco, che li avrebbe voluti impiegati separatamente, gli
italiani si presentarono come un blocco unico sotto il comando di Roatta, in
linea con una politica di prestigio fascista e italiano. Obiettivo finale era
portare i nazionalisti spagnoli il più rapidamente possibile alla vittoria, per
smarcarsi quanto prima dalla Germania e ottenere, quindi, da Inghilterra e
Francia un accordo politico generale, in linea con le ambizioni di grande
potenza, nutrite dal fascismo. Se l’inizio della campagna fu incoraggiante, con
il CTV che in pochi giorni conquistò Malaga, il fallimento della successiva
offensiva su Guadalajara gelò ogni
entusiasmo. Quando il 18 marzo il fronte italiano crollò, soltanto il
logoramento generale impedì agli avversari di inferire sulle truppe in
ritirata. Lo scacco fu terribile, più ancora politico che militare. La stampa
internazionale lo presentò come la “Caporetto” del fascismo, che dopo essere
apparso inarrestabile per 15 anni veniva, infine battuto sul campo da un
esercito da un esercito popolare, composto in larga parte da volontari delle
Brigate Internazionali, tra cui spiccavano gli antifascisti italiani del
Battaglione Garibaldi. Guadalajara segnò uno spartiacque: non solo allontanò di
molto la possibilità di una svolta nella guerra civile e, quindi, di un riavvicinamento
italiano alle democrazie occidentali, ma soprattutto condannò il fascismo a
mantenere una forte presenza in Spagna nella speranza di conseguire un
obbligato riscatto sul campo. L’impegno al fianco di Franco e di Hitler,
insomma smise di prospettare vantaggi concreti all’Italia, ormai
definitivamente impantanata nelle sabbie mobili spagnole, ma continuò a
gravare, come e più di prima, sulle forze armate e sulle finanze dello Stato.
lo storico Coverdale ben riassume la situazione scrivendo che “più di quanto avrebbe potuto fare una
qualsiasi vittoria. Guadalajara aveva ormai legalo l’Italia al carro franchista”.
Non passarono poche settimane dall’insuccesso che il comando del CTV passò al
generale Bastico. Questi, ristrutturando completamente il corpo volontario e
sottoponendolo a un intenso addestramento, ottenne che le sue truppe, già in
agosto, risultassero decisive nella vittoriosa offensiva su Santander. Se da
una parte Mussolini poté così considerare vendicata l’onta di Guadalajara,
dall’altra Franco risentì per il ruolo di primo piano che Bastico pretese per
le proprie truppe, tanto che alla fine del mese, per assecondare Franco, si
dovette rimpiazzarlo col generale Berti. Nei mesi successivi, per quanto Berti
stesso ebbe da lamentarsi per la marginalità cui i franchisti relegavano il
corpo italiano, gli uomini sotto il suo comando, quando chiamati in causa,
seppero comportarsi “con efficienza e
dedizione, all’altezza delle truppe franchiste” come scrisse Rochat. Ad
ogni modo, col tempo Franco ebbe sempre meno bisogno del CTV e, di pari passo
con l’aumento della fanteria autoctona, che a fine guerra raggiunse il milione
di uomini, diminuì inevitabilmente la visibilità delle truppe italiane, con
grande scorno di Mussolini. Ciononostante, poiché il Duce volle fino all’ultimo
evitare di sembrare disposto a compiacere l’Inghilterra pur di ottenere
l’accordo generale, solo con l’avvicinarsi della vittoria nel 1939 furono
progressivamente rimpatriate, quando ormai le sorti del regime mussoliniano
erano lontanissime da Londra e sempre più legate a quelle del Nazismo. Il
bilancio finale del coinvolgimento italiano nella guerra, che Dino Grandi nelle
sue Memorie paragonò “a una malattia subdola, lenta e progressiva”, fu di 6255
morti e 21715 feriti. Un aspetto spesso
poco considerato dell’intervento italiano è il ruolo giocato dall’aviazione,
che agì sempre in autonomia su tutti i fronti, in appoggio ai nazionalisti e
fornì un contributo essenziale alla vittoria dei ribelli. I 764 aerei e i 5699
uomini dell’aeronautica inviati in Spagna garantirono ai franchisti il dominio
dei cieli, una maggiore protezione delle truppe di terra e un alto successo
nelle misure che puntavano a colpire obbietti strategici e città nelle retrovie
repubblicane. Nel complesso, puro considerando la sconfitta di Guadalajara, l’Italia
dimostrò di poter sostenere adeguatamente lo sforzo bellico di una moderna
guerra europea. Se poi, nel 1940, questo non avvenne, non fu dunque perché le
forze armate uscirono a pezzi dal conflitto iberico, che anzi avrebbe dovuto
permettere loro d’acquisire preziosa esperienza sul campo, ma per altre
ragioni. Negli stessi anni in cui le potenze europee intraprendevano un’accelerata
corsa al riarmo, Mussolini non comprendendo quanto rapidamente si stessero
logorando gli equilibri internazionali, utilizzò fondi che sarebbero stati
vitali per la preparazione di una guerra continentale per assicurarsi successi
di prestigio a breve termine, senza affrontare quelle inefficienze del sistema
industriale, a lui ben note, che impedivano il pronto rimpiazzo del materiale
perduto in Spagna con nuovi e più moderni armamenti. In questo senso il
fascismo sarebbe sprofondato sempre più sulle sabbie mobili dal 1936 fino all’inevitabile
epilogo.
Carri leggeri italiani avanzano con un carro lanciafiamme L3-35Lf al comando verso Guadalajara.
Truppe italiane durante l'offensiva finale in Catalogna nel 1939
Articolo in gran parte
di Iacopo Turconi Dottore in scienze storiche pubblicato su BBC History del
mese di novembre 2018 altri testi e articoli da Wikipedia
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