sabato 9 novembre 2019

La guerra civile spagnola: una trappola per l’Italia fascista.


La guerra civile spagnola: una trappola per l’Italia fascista.
Sostenere la ribellione di Franco in Spagna, con profusione di uomini e mezzi, avrebbe dovuto garantire grandi vantaggi alla diplomazia dell’Italia di Mussolini, bisognosa di affermarsi come legittimo impero e potenza europea. Franco vinse, ma fu lì che cominciò il naufragio del fascismo.

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Una colonna italiana durante la battaglia di Guadalajara

Fiat C.R.32 del XVI Gruppo Autonomo "cucaracha" scortano un Savoia-Marchetti S.M.81 in una missione di bombardamento.
Quando, con la trionfale entrata di Badoglio in Adis Abeba il fascismo giunse all’apogeo del suo consenso, il 5 maggio 1936, ancora parecchi nodi rimanevano irrisolti: che per il regime fosse vitale risollevare al più presto i rapporti con le democrazie liberali di Inghilterra e Francia, prima irritate dall’avventurismo coloniale italiano e poi spaventate dalla portata del suo successo, era opinione condivisa da tutti. L’Italia non poteva permettersi di rimare isolata troppo a lungo dalle altre potenze e il suo nuovo status di Impero, perché fosse effettivo, non poteva prescindere dalla loro approvazione. Come ottenere questo risultato era tuttavia fonte di divergenze. Mentre i gerarchi più conservatori predicavano cautela, il delfino di Mussolini, Galeazzo Ciano, premeva per azioni spregiudicate, sicura che Londra e Parigi avrebbero riconosciuto l’Impero non appena fosse balenato ai loro occhi il rischio concreto di un avvicinamento dell’Italia a Berlino.
Hitler, consapevole di avere tutto da guadagnare dai dissidi di Roma con i suoi storici alleati, rimaneva alla finestra, aspettando l’occasione propizia per tentare di far inclinare verso la Germania il baricentro della diplomazia fascista. E’ su questo drammatico sfondo che irruppero  il 18 luglio, Francisco Franco e alcuni tra i più importanti generali dell’esercito spagnolo, sollevandosi in armi contro la fragile Republica, pericolosamente orientata a sinistra. Il golpe, fallito l’effetto sorpresa, innescò rapidamente una guerra civile di vasta portata sul territorio nazionale. Contro il legittimo governo in fase di assestamento si muoveva una galassia composita di conservatori, integralisti cattolici e monarchici, tutti coalizzati per restaurare la monarchia o comunque un governo di impronta conservatrice. Inizialmente minoritaria, ma destinata a svolgere un ruolo di primo piano all’interno della coalizione, era poi la Falange di José Antonio de Rivera, ispirata all’ideologia fascista.
L’Italia non sostenne in alcun modo il golpe, non era nell’interesse del Duce, il quale auspicava che la Spagna potesse rimanere ancora a lungo uno Stato neutrale, forte e in grado di resistere alle pressioni diplomatiche d’Oltralpe. La Francia, infatti, se fosse riuscita ad assicurarsi l’amicizia di Madrid, in caso di guerra europea su larga scala avrebbe potuto velocemente trasferire via Gibilterra le proprie truppe dalle colonie africane alla madrepatria e far valere così la propria schiacciante superiorità militare. Furono dunque tradizionali considerazioni di politica estera quelle che più influirono sull’orientamento dell’Italia verso la questione spagnola, specialmente dopo l’Alzamiento Nacional, quando ci si rese conto che l’eventuale sconfitta dei ribelli avrebbe portato al consolidamento del governo eletto, a tutto vantaggio delle sinistre più radicali, socialisti e comunisti allora al governo in Francia. Si può quindi immaginare con quale preoccupazione Mussolini venne a sapere che da Parigi erano stati rapidamente inviati aerei e armi al governo repubblicano: quanti più aiuti francesi la Repubblica avesse avuto, tanto più nettamente si sarebbe schierata a fianco delle democrazie occidentali una volta sedata la ribellione. D’altra parte, valeva anche l’opposto: se l’Italia avesse dato seguito alle proprie simpatie per i nazionalisti con un sostegno concreto e questi avessero infine sconfitto i repubblicani, senz’altro Roma sarebbe stata tutelata nei propri interessi geopolitici.
Fu la Germania, per prima, ad accettare le richieste d’aiuto di Franco e a trascinare con sé l’Italia sulla via dell’intervento. Il fascismo cadde nella trappola tesagli da Hitler, che da tempo attendeva l’occasione propizia per allontanare ancora di più Roma da Francia e Gran Bretagna: cordialità e stima reciproche tenute faticosamente in vita da Galeazzo Ciano fino a quel momento, nonostante le sanzioni comminate all’Italia in seguito alla campagna coloniale in Etiopia, con il sostegno dell’allora ambasciatore a Londra Dino Grandi, che per idee e cultura aveva una naturale propensione per le potenze occidentali.
La collaborazione da italo tedesca, propiziata dalla visita di Mussolini del principe d’Assia, marito di Mafalda di Savoia, prese corpo tra agosto e settembre, quando Mussolini affidò la responsabilità della missione italiana in Spagna al generale Mario Roatta capo del SIM, il Servizio d’Informazione Militare. Fu lui a tenere i rapporti con Franco e a guadagnarsene la riconoscenza, tanto che nel 1945, evaso dal carcere in cui era stato rinchiuso con l’accusa di crimini di guerra in Iugoslavia e dell’assassinio dei Fratelli Rosselli, sarebbe potuto riparare nella penisola iberica e lì rimanere al sicuro per decenni. Un’altra ragione che indusse l’Italia a sostenere i golpisti di Franco fu l pronto schierarsi con i repubblicani dell’antifascismo internazionale, dall’Unione Sovietica agli esuli italiani. Gli stessi fratelli Rosselli, al tempo attivi in Francia, promossero la parola d’ordine: “la guerra civile del proletariato di Spagna è guerra di tutto l’antifascismo”. Si valutò insomma come concreto il rischio che “l’infezione rossa”, se non stroncata subito, dopo aver attecchito in Spagna, si sarebbe propagati ad altri stati europei. Nonostante il modesto successo che ebbe l’intervento presso l’opinione pubblica nazionale, è indubbio che alcuni settori specifici videro con favore il coinvolgimento dell’Italia negli affari spagnoli. Al di là delle alte gerarchie militari, che lo accettarono con entusiasmo, a chiederlo erano vasti settori del clero e del mondo cattolico, spaventati dagli eccidi di matrice antireligiosa e insieme affascinati dalla prospettiva di unirsi “alla santa cruda contra el marxismo”. Non erano da meno le Camicie nere della Milizia, desiderose di riprendersi una rivincita d’immagine dopo i successi del Regio Esercito in Etiopia e di fascistizzare il conflitto, facendo della Falange spagnola il fulcro di un nuovo Stato corporativistica sul modello italiano. In verità, Franco andava in un’altra direzione: come dittatore si contraddistinse per l’opportunismo e per il talento di regnare su fazioni fra loro rivali,  a scapito di un reale progetto politico e i primi a rendersene conto furono proprio alle Camicie nere. Già all’inizio del 1937 Farinacci scrisse con amarezza a Mussolini che il Caudillo non “aveva nessuna idea precisa di quella che sarà la Spagna di domani”, che si preoccupava “soltanto di vincere la guerra e di mantere poi, per un lungo periodo, un governo autoritario”.
Le fasi del coinvolgimento seguirono le previsioni del generale Faldella, che preventivamente sondato da Roatta sulla missione rispose: “La Spagna è come una sabbia mobile: se ci si mette dentro la mano, ci si va dentro del tutto. Se le cose andranno male si darà la colpa a noi, se andranno bene ci si dimenticherà”. Fino a novembre il grado d’intervento italiano fu modesto e gli aiuti consistettero essenzialmente in armi e personale istruttore, dopodiché Roma, preoccupata per la stasi del conflitto, decise di alzare la posta nella speranza di provocare uno scossone decisivo alla contesa spagnola. Fu così che, tra dicembre e febbraio, il CTV, il nuovo Corpo Truppe Volontarie, raggiunse le 48.823 unità, per tre quinti Camicie nere. Lo componeva una massa eterogenea, poco addestrata, scarsamente coesa, anche se bene armata. Contro il parere dello stesso Franco, che li avrebbe voluti impiegati separatamente, gli italiani si presentarono come un blocco unico sotto il comando di Roatta, in linea con una politica di prestigio fascista e italiano. Obiettivo finale era portare i nazionalisti spagnoli il più rapidamente possibile alla vittoria, per smarcarsi quanto prima dalla Germania e ottenere, quindi, da Inghilterra e Francia un accordo politico generale, in linea con le ambizioni di grande potenza, nutrite dal fascismo. Se l’inizio della campagna fu incoraggiante, con il CTV che in pochi giorni conquistò Malaga, il fallimento della successiva offensiva  su Guadalajara gelò ogni entusiasmo. Quando il 18 marzo il fronte italiano crollò, soltanto il logoramento generale impedì agli avversari di inferire sulle truppe in ritirata. Lo scacco fu terribile, più ancora politico che militare. La stampa internazionale lo presentò come la “Caporetto” del fascismo, che dopo essere apparso inarrestabile per 15 anni veniva, infine battuto sul campo da un esercito da un esercito popolare, composto in larga parte da volontari delle Brigate Internazionali, tra cui spiccavano gli antifascisti italiani del Battaglione Garibaldi. Guadalajara segnò uno spartiacque: non solo allontanò di molto la possibilità di una svolta nella guerra civile e, quindi, di un riavvicinamento italiano alle democrazie occidentali, ma soprattutto condannò il fascismo a mantenere una forte presenza in Spagna nella speranza di conseguire un obbligato riscatto sul campo. L’impegno al fianco di Franco e di Hitler, insomma smise di prospettare vantaggi concreti all’Italia, ormai definitivamente impantanata nelle sabbie mobili spagnole, ma continuò a gravare, come e più di prima, sulle forze armate e sulle finanze dello Stato. lo storico Coverdale ben riassume la situazione scrivendo che “più di quanto avrebbe potuto fare una qualsiasi vittoria. Guadalajara aveva ormai legalo l’Italia al carro franchista”. Non passarono poche settimane dall’insuccesso che il comando del CTV passò al generale Bastico. Questi, ristrutturando completamente il corpo volontario e sottoponendolo a un intenso addestramento, ottenne che le sue truppe, già in agosto, risultassero decisive nella vittoriosa offensiva su Santander. Se da una parte Mussolini poté così considerare vendicata l’onta di Guadalajara, dall’altra Franco risentì per il ruolo di primo piano che Bastico pretese per le proprie truppe, tanto che alla fine del mese, per assecondare Franco, si dovette rimpiazzarlo col generale Berti. Nei mesi successivi, per quanto Berti stesso ebbe da lamentarsi per la marginalità cui i franchisti relegavano il corpo italiano, gli uomini sotto il suo comando, quando chiamati in causa, seppero comportarsi “con efficienza e dedizione, all’altezza delle truppe franchiste” come scrisse Rochat. Ad ogni modo, col tempo Franco ebbe sempre meno bisogno del CTV e, di pari passo con l’aumento della fanteria autoctona, che a fine guerra raggiunse il milione di uomini, diminuì inevitabilmente la visibilità delle truppe italiane, con grande scorno di Mussolini. Ciononostante, poiché il Duce volle fino all’ultimo evitare di sembrare disposto a compiacere l’Inghilterra pur di ottenere l’accordo generale, solo con l’avvicinarsi della vittoria nel 1939 furono progressivamente rimpatriate, quando ormai le sorti del regime mussoliniano erano lontanissime da Londra e sempre più legate a quelle del Nazismo. Il bilancio finale del coinvolgimento italiano nella guerra, che Dino Grandi nelle sue Memorie paragonò “a una malattia subdola, lenta e progressiva”, fu di 6255 morti e  21715 feriti. Un aspetto spesso poco considerato dell’intervento italiano è il ruolo giocato dall’aviazione, che agì sempre in autonomia su tutti i fronti, in appoggio ai nazionalisti e fornì un contributo essenziale alla vittoria dei ribelli. I 764 aerei e i 5699 uomini dell’aeronautica inviati in Spagna garantirono ai franchisti il dominio dei cieli, una maggiore protezione delle truppe di terra e un alto successo nelle misure che puntavano a colpire obbietti strategici e città nelle retrovie repubblicane. Nel complesso, puro considerando la sconfitta di Guadalajara, l’Italia dimostrò di poter sostenere adeguatamente lo sforzo bellico di una moderna guerra europea. Se poi, nel 1940, questo non avvenne, non fu dunque perché le forze armate uscirono a pezzi dal conflitto iberico, che anzi avrebbe dovuto permettere loro d’acquisire preziosa esperienza sul campo, ma per altre ragioni. Negli stessi anni in cui le potenze europee intraprendevano un’accelerata corsa al riarmo, Mussolini non comprendendo quanto rapidamente si stessero logorando gli equilibri internazionali, utilizzò fondi che sarebbero stati vitali per la preparazione di una guerra continentale per assicurarsi successi di prestigio a breve termine, senza affrontare quelle inefficienze del sistema industriale, a lui ben note, che impedivano il pronto rimpiazzo del materiale perduto in Spagna con nuovi e più moderni armamenti. In questo senso il fascismo sarebbe sprofondato sempre più sulle sabbie mobili dal 1936 fino all’inevitabile epilogo.
Carri leggeri italiani avanzano con un carro lanciafiamme L3-35Lf al comando verso Guadalajara.


Truppe italiane durante l'offensiva finale in Catalogna nel 1939

Articolo in gran parte di Iacopo Turconi Dottore in scienze storiche pubblicato su BBC History del mese di novembre 2018 altri testi e articoli da Wikipedia

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