martedì 26 novembre 2019

Amedeo VIII L’antipapa di casa Savoia.


Amedeo VIII
L’antipapa di casa Savoia.
Dopo aver governato con successo un piccolo Stato, Amedeo si ritirò in preghiera finché gli fu chiesto di fare il papa. E lui accettò.
 Ritratto di Amedeo VIII - Google Art Project.jpg
Amedeo VIII duca di Savoia
Anche tra i primi Savoia, in mezzo a personaggi opachi, che lasciarono di sé un ricordo molto labile, emergono alcune figure assolutamente straordinarie. Come quella del primo duca Amedeo VIII, la cui vita fuori dall’ordinario sembra nascere dalla fantasia di un romanzo. Le premesse non sembravano le migliori.  Esile, leggermente strabico, poco predisposto alle attività cavalleresche, da bambino, era nato nel 1383, pareva uno di tanti ragazzi destinati a non arrivare all’età adulta. In questo fu molto diverso dal padre e ancora più dal nonno Amedeo II. Fisicamente limitato, il bimbo seppe invece sviluppare la sua personalità in un altro modo, interpretando nel modo migliore il passaggio epocale che il mondo occidentale stava vivendo. Il Medioevo era ormai al tramonto, almeno in Italia, e stava emergendo una nuova figura, quella del principe. Costui non combatteva le guerre in prima linea ma le progettava a tavolino, studiava gli equilibri diplomatici per sfruttarli a suo favore, viaggiava forse poco, ma badava a tenere rapporti diplomatici frequenti e attivi con tutto il mondo che contava. Se analizziamo gli anni del governo di Amedeo VIII, non troviamo né grandi imprese né conquiste. Il suo governo restò sempre fondato sull’equilibrio e sull’equidistanza tra le parti. In un periodo di guerre continue, questo Savoia riuscì a trarre vantaggio dal fatto di non schierarsi con nessuno, e presentandosi invece come garante dell’equilibrio. Come quando gli fu conferito il titolo di duca non quale premio per una guerra vinta a fianco dell’imperatore, ma perché grazie all’importante titolo (molto più alto di quello di conte) egli poteva tenere a freno gli appettiti dei francesi sulle terre di confine con l’impero.
Amedeo VIII proseguì, attraverso acquisti e incorporazioni, lo sviluppo territoriale del suo dominio, ma probabilmente il suo merito maggiore è rappresentato dagli Statuti del 1430. Il territorio che governava era molto diversificato per caratteristiche naturali e origini culturali. Non potendo perciò imporre regole e strutture omogenee. Amedeo preferì, saggiamente, optare per un’opera di riordinamento, ciò si realizzò attraverso un sistema amministrativo piuttosto efficiente e razionale.

Gli statuti sabaudi.
Promulgati da Amedeo VIII nel 1430, gli Statuti Sabaudi costituivano un vero e proprio che raccoglieva le leggi dei territori sotto i Savoia. Essi fornivano le basi per un ordinamento più moderno dello Stato e davano regole scritte e univoche per i tre consigli, la Tesoreria e la Camera dei Conti. Contenevano anche alcune disposizioni contro gli ebrei, ai quali veniva imposto di abitare in un luogo separato dai cristiani (quello che sarà il ghetto). Agli israeliti era anche vietato uscire di notte “affinché le menti dei fedeli non siano corrotte dalla vicinanza dei Giudei, e gli stessi Giudei non possano nuocere ai Cristiani”. Inoltre gli ebrei, dopo il compimento del settimo anno, avevano l’obbligo di portare sulla spalla sinistra un contrassegno di panno con il simbolo di una ruota bianca e rossa “per dare ai fedeli la possibilità di scansare gli infedeli”.
Il ritiro di
 Ripaglia.
“Lungo un tracciato rettangolare di 158 metri di lunghezza e 70 di larghezza, fu tracciato un fossato profondo 7 m. L’edificio costruito ebbe circa 100 m. di lunghezza e consisteva in una cortina solenne in cui erano incastonate sette torri circolari: la più alta era per il capo dell’Ordine, cioè lo stesso duca. Ogni torre era fornita di una scala a chiocciola che conduceva al piccolo appartamento dell’eremita: una camera, uno studio, una cameretta per il servitore, una cucina, un cellario; davanti a ogni torre vi era un orticello. L’accesso a questa originale casa dei Cavalieri era dato da un ponte levatoio che fu chiamato ‘Ponte Felice’, poiché la felicità era promessa a chi la varcava con animo retto. L’edificio comprendeva una sala per il Capitolo dell’Ordine e una cappella dedicata a Nostra Signora. Un altro accesso attraverso la palizzata conduceva al bosco” Da Maurice Brouchet, Le Chateau de Ripaille 1907.


UNA VITA TRA POTERE E FEDE.
1383
Il 4 settembre, a Chambery nasce Amedeo, figlio di Amedeo VII, detto Conte Rosso, e di Bona di Berry. Timido e introverso, dopo la morte del padre viene separato anche dalla madre, costretta a risposarsi.
1401
Amedeo sposa Maria di Borgogna. Anche se è maggiorenne da qualche anno, ha cominciato soltanto da poco a esercitare effettivamente il potere dopo la lunga reggenza della nonna Bona di Borbone.
1404
Su iniziativa del principe di Savoia-Acaia, nasce l’Università di Torino. Intanto, sfruttando le proprie doti diplomatiche, Amedeo continua a far crescere i confini del suo territorio, pur senza avventurarsi in guerre.
1416
Amedeo ottiene dall’imperatore Sigismondo la trasformazione della contea in ducato: diventa così il primo duca di Savoia. Il suo dominio, comprende Savoia, Moriana, Val d’Aosta e parte del Piemonte.
1430
Amedeo promulga gli Statuti Sabaudi, la raccolta delle leggi in vigore nei territori della Savoia da lui governati. Il testo contiene anche le prime disposizioni contro gli ebrei che vivono nello Stato sabaudo.
1434
In autunno Amedeo si ritira nel castello di Ripaglia, accompagnato dalla corte e da sei tra i suoi più fidati cavalieri, rinunciando al potere in favore del figlio Ludovico. Il castello divnta una specie di monastero.
1438
Benchè dichiari di non volerlo, considerandosi un saggio ma non un religioso né un teologo,  Amedeo accetta la proposta del Concilio di Basilea e il 24 maggio diviene papa (in realtà antipapa) con il nome di Felice V
1449
Dopo le dimissioni spontanee dal soglio pontificio e la nomina a cardinale da parte del papa legittimo Niccolò V, Amedeo torna a Ripaglia e alle cure del suo ducato. Muore nel castello di Ripaglia nel 1451




Ripaille 01.jpg
Castello di Ripaglia
Château de Ripaille

Un monastero particolare. La sua posizione consistette nella creazione di un principato regionale che raggruppasse sotto di sé i particolarismi locali. Poi potenziò il Consilium cum domino residens creato dal Conte Verde (un altro grande Savoia). La sua intenzione era quella d’istituire un gruppo ristretto di collaboratori che assistesse e seguisse il signore nei suoi spostamenti e che assommasse in sé competenze esecutive, legislative e giudiziarie. Era un organismo efficiente, che garantiva la professionalità e l’esperienza necessarie, per esempio, a dirimere le controversie che potevano facilmente nascere tra i diversi poteri locali. Sotto al Consilium ce n’era un altro, formato da funzionari amministrativi, che aveva sede a Chambéry; presto se ne aggiungessero uno a Torino e un altro ad Annecy: Amedeo VIII volle così istituire un organo di governo locale che comunicasse le decisioni del signore, e inoltre che ne autenticasse e conservasse gli atti pubblici. In questo disegno, la fiscalità e la contabilità erano affidate alla Tesoreria, mentre la Corte dei Conti era chiamata a controllare la correttezza degli atti degli amministratori. La struttura organizzativa del ducato di Amedeo VIII era basata sulle castellanie, un centinaio in tutto, con funzionari che avevano allo stesso compiti militari, amministrativi, finanziari e giudiziari. Anche se apparentemente era centralizzata, in realtà la struttura seppe tenere conto dei preesistenti poteri locali. Frequentemente i suoi funzionari erano gli stessi aristocratici, il che servì a dare vita a quella relazione e collaborazione fra centro e periferia che avrebbe caratterizzato in positivo il Ducato di Savoia. Nel 1424, Amedeo VIII elevò il Piemonte al rango di principato. Ciò avvenne a Thonon, il 15 agosto, giorno dell’Assunta. Contestualmente il duca conferì al nuovo principato la sua bandiera, sovrapponendo alla Croce di Savoia (d’argento in campo rosso, eventualmente bordata in azzurro) il lambello (un listello nella parte alta dello scudo) a tre gocce del medesimo colore. Questa insegna è ancora oggi l’emblema del Piemonte, detta el Drapo. Da un uomo capace di organizzare un simile progetto (il quale dimostrava grande lucidità, senso dello Stato e una visione laica della società da cui l’ingerenza della Chiesa era esclusa), non ci sarebbe aspettati una decisione come quella presa nell’ottobre del 1434. Quell’autunno, rimasto vedovo della moglie Maria di Borgogna, Amedeo VIII decise infatti di abbandonare la vita pubblica per ritirarsi nel monastero di Ripaglia, vicino alle rive del lago di Ginevra, in Alta Savoia. Già castello sabaudo, questo grande edificio venne trasformato in monastero, mediante la costruzione di sette torri circolari, destinate ad accogliere il duca ed i suoi più fidati cavalieri, i primi membri dell’Ordine dei cavalieri romiti di San Maurizio (dal nome del santo protettore dei sovrani di Borgogna e di casa Savoia). Si trattava indiscutibilmente di un ordine molto particolare, più simile a un consiglio di Stato che a un vero e proprio ordine religioso. Amedeo continuava a dirigere dall’eremo gli altari più importanti del ducato, incontrando i suoi compagni di eremitaggio due volte alla settimana per trattare le questioni politiche. Si racconta che quei primi cavalieri dell’ordine mauriziano avessero tutti barba e capelli lunghi e che indossassero una tonaca grigia con cappuccio, con una croce d’oro sul petto. La mensa era in comune, ma più simile a quella di una corte che di un convento. Tutti i membri dell’Ordine Mauriziano disponevano di una rendita per le spese e vivevano in una torretta indipendente con un piccolo giardino, accuditi da servitori. La torre di Amedeo VIII era la più grande e la sua servitù la più numerosa. Era dunque una vita monastica molto particolare, che certo rispondeva al carattere riservato e riflessivo di Amedeo, ma che secondo alcuni era una strategia finalizzata a raggiungere un obiettivo segreto e ambizioso: diventare papa.
In quegli anni i padri conciliari, appoggiati dalle monarchie francese e inglese (le quali spingevano per una maggiore autonomia del loro clero dagli obblighi anche economici verso il papato) volevano godere di un’autorità svincolata da quella del pontefice. Per questo motivo i rapporti del Concilio e la Santa Sede erano diventati alquanto burrascosi.

La Sacra Sindone e il tesoro di casa Savoia.
La Sindone fotografata da Giuseppe Enrie (1931). In alto l'immagine dorsale (capovolta), in basso quella frontale. Ai lati delle immagini si vedono le bruciature dell'incendio del 1532 e i relativi rattoppi (rimossi nel 2002)
Vent’anni dopo la morte di Amedeo VIII, i duchi di Savoia entrarono in possesso della Sacra Sindone, la più importante e studiata reliquia della cristianità, che è attualmente conservata a Torino. Non si sa molto della storia di questo oggetto prima della sua ricomparsa in Francia nel XIV secolo. Nel 944 un sudario su cui appariva un’immagine “archeropita”cioè non creata manualmente, si trovava a Costantinopoli. La reliquia era già nota e per i secoli era stata conservata a Edessa, dove sarebbe stata portata da Taddeo, uno dei discepoli di Tommaso, che era stato inviato alla corte del sovrano per catechizzarlo e battezzarlo. A Edessa il telo, venerato come Mandylion, era tenuto piegato e incorniciato in un reliquario, a mostrare solo il volto come ritratto. Quando scomparve dopo il saccheggio di Costantinopoli del 1204, probabilmente ad opera dei Cavalieri Templari, la reliquia fu nascosta a lungo in un luogo segreto. Forse era proprio la Sindone, e non un simbolo pagano, l’immagine che i templari vennero accusati di venerare. Riapparso più volte nei secoli, ma si trattava probabilmente di copie raffiguranti solo il volto di Gesù, che andarono perdute, come quella conservata a Besancon, distrutta durante la rivoluzione francese. Nel 1353 la Sindone che conosciamo era ricomparsa a Lirely, vicino a Parigi. Ne venne fatta una pubblica ostensione, con una clausola voluta dall’antipapa Clemente VII: l’avvertimento che quella non era la vera Sindone, ma una rappresentazione. Nel 1453 Margherita, discendente di Geoffry de Charny, il cavaliere che aveva portato la reliquia a Lirey, la cedette, probabilmente per difficoltà economiche, ad Anna di Lusignano, moglie di Ludovico di Savoia. I duchi di Savoia la trasferirono a Chambery, dove a partire nel 1502 venne collocata nella Sainte Chapelle della cattedrale. Qui venne danneggiata dall’incendio: le suore clarisse ripararono i danni con rappezzi triangolari e foderarono con un tessuto di sostegno. Il trasferimento a Torino fu voluto da Emanuele Filiberto per facilitarne il pellegrinaggio del cardinale Carlo Borromeo in adempimento al voto che il santo aveva fatto per la liberazione di Milano della peste.
Nel 1694 la Sindone fu collocata nella cappella progettata dal Guarini tra la cattedrale di Torino e il Palazzo Reale. Nei secoli seguenti furono fatte varie ostensioni. In occasione di quella del 1898 si scattarono le prime fotografie della Sindone, mentre scoppiarono nuovamente polemiche sull’autenticità e sulla datazione. Per proteggerla dai rischi della guerra nel 1939 la Sindone venne nascosta nel santuario di Montevergine, vicino ad Avellino per tornare definitivamente nel 1946 a Torino.
La Sindone è certamente la più celebre reliquia della cristianità e continua ed essere oggetto di studi scientifici e diatribe fra credenti e non credenti. Uno dei più famosi progetti di ricerca è stato lo Shoroud of Tourin Research Project, conclusi nel 1981. Una serie di test preliminari compiuti sul tessuto portarono alla conclusione che la Sindone non fosse il prodotto di una pittura. Si trattava, secondo i ricercatori di un lenzuolo dentro al quale era stato avvolto un uomo che aveva effettivamente i segni corrispondenti a quelli che avrebbe avuto un corpo crocifisso. Con le prove a disposizione i ricercatori conclusero che fosse impossibile determinare come fosse rimasta così nitidamente impressa sul lenzuolo. Vennero fatti altri test più invasivi. Quello con il carbonio 14 stabilì al 95% , che la Sindone era databile tra il 1262 e il 1384, un periodo compatibile con le prime tracce storiche di cui disponiamo. Seguirono critiche al metodo usato ed alla scelta del tessuto da analizzare.
Oggi il mistero più grande è il modo in cui il disegno umano si è potuto fissare sul tessuto. La Chiesa non ha mai avvallato l’autenticità dell’oggetto, lasciando tale compito alla scienza, ma ne autorizza la venerazione come “icona della passione di Gesù”. Certo che l’immagine che appare guardando il negativo della fotografia della Sindone è sconvolgente: un uomo crocifisso coperto di piaghe e ferite, così come il Vangelo descrivono il Cristo dopo il supplizio. Dopo essere appartenuta ai Savoia per secoli, dopo la morte di Umberto II, nel 1983 per volontà testamentaria la reliquia è passata alla Chiesa che ne ha affidato le cure a un custode pontificio, che attualmente è l’arcivescovo di Torino.
Nelle vesti papali.

Al termine di una vita ricca di traguardi, arrivò per Amedeo VIII l’onore più imprevisto e
forse meno desiderato: l’onore di essere eletto papa dal Concilio di Basilea nel 1431. Ecco Amedeo in una stampa tedesca, con il triregno (la tiara triplicemente coronata) del suo nuovo ruolo: quello di papa con il nome di Felice V.

Il piccolo scisma d’occidente. Nel 1439 il Concilio di Basilea, riaprendo nella Chiesa cattolica uno scisma che serpeggiava da quasi cinquant’anni e che si era cercato di comporre con il Concilio di Costanza, decise di proclamare Amedeo VIII papa dopo aver accusato di eresia Eugenio IV. Alcuni storici affermano che Amedeo VIII fu assai riluttante ad accettare la tiara, aborrendo dall’idea di contenderla a Eugenio IV e di veder continuare le discordie che straziavano la Chiesa. Altri invece gli rimproverano di aver seriamente aspirato alla dignità papale e di aver brigato per conseguirla. Certamente papa Eugenio IV rappresentava la Chiesa secolare in cui prosperavano la corruzione e gli abusi, mentre il Concilio di Basilea, che aveva innalzato il duca Amedeo VIII al soglio pontificio con il nome di Felice V, sosteneva la necessità di una profonda riforma e purificazione. Fatto sta che Amedeo accettò la nomina, abdicò a favore del figlio Lodovico e si recò a Basilea, dove entrò solennemente il 4 giugno 1440. Naturalmente papa Eugenio IV lo scomunicò e la Chiesa fu nuovamente divisa da uno scisma che durò dieci anni. In quel periodo Amedeo cercò comunque du fare il papa quanto meglio poté e di ricomporre la Chiesa sotto un unico pontefice.
Le grandi potenze dell’epoca non presero una posizione precisa: si dovette attendere la morte di Eugenio IV e l’elezione del nuovo papa Nicola V perché, su iniziativa del re di Francia, cessasse lo scisma. Non fu difficile convincere Felice V ad accettare la rinuncia al pontificato e a riconoscer l’autorità di Nicola V. era stanco e anziano, e probabilmente aveva già raggiunto gli obiettivi che si era posto per sé e per la propria dinastia. In cambio gli fu revocata la scomunica e gli venne concesso l’onore di essere ricordato non come antipapa, ma come “già Felice V papa”. Poi fu nominato cardinale, vescovo di Sabina, e “primo principe della Chiesa dopo il sovrano pontefice”. Gli restò anche il ricco vescovado di Ginevra. Ma preferì tornare alla vita monastica. Amedeo morì poco dopo nel 1451.

Articolo in gran parte di Alessandro Melicotti pubblicato su Conoscere la Storia n. 50 Sprea Editori.
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sabato 16 novembre 2019

L’honesta Imperia


L’honesta Imperia
Storia della cortigiana più celebre della Roma del ‘500, amante e musa di artisti, nobili, cardinali. Donna bellissima, ma anche colta e raffinata.
  Galatea di Raffaello
Il rumore dei carri e delle carrozze e il vociare sempre più intenso che salivano dalla strada la costrinsero ad aprire gli occhi. Quella città diventava ogni giorno più chiassosa e invivibile, persino in quel quartiere. Si era trasferita lì da un annetto, ma ormai neppur la bellezza del suo lussuoso appartamento in Via Giulia, non lontano dal Campo de’ Fiori, la confortava più “non era colpa di Roma. Non soltanto almeno” pensava Lucrezia Cognati. Era la sua vita che le era diventata intollerabile: la vita della cortigiana più amata di Roma rinascimentale, amante e musa di immensi artisti e letterati del XVI secolo. La cortigiana che tutti conoscevano con il nome d’arte di Imperia.

FIGLIA D’ARTE. Scivolò giù dal letto e cominciò la toeletta quotidiana, tipica di tutte le sue colleghe: con un tovagliolo di lino si strofinò i denti, poi si sciacquò la bocca e, quando entrarono le serve per farle il bagno, il turbamento del risveglio si sciolse nell’aroma fiorito dell’acqua. Indugiò a lungo nella vasca, poi si tirò su e le donne si affrettarono ad asciugarla, a limarle le unghie e a profumarla. Imperia si osservò allo specchio. Aveva compiuto trentuno anni il 3 agosto 1512, “nove giorni fa” calcolò.
Presto nessuno l’avrebbe più desiderata, nessuno avrebbe cercato i suoi favori di giorno e il suo corpo di notte. Persino il suo Agostino si era trovato un’amante più giovane. Sarebbe tornata presto a essere una Lucrezia qualunque, sarebbe finita a fare l’affittacamere in una bettola, o peggio, una lavandaia. Oppure a chiedere l’elemosina sui gradini di una chiesa. Quante se ne vedevano di sfortunate così, in giro! Non fosse stato per lei, probabilmente anche sua madre, Diana Cognati, avrebbe fatto quella fine.
Cortigiana a sua volta, la donna aveva visto, in quel fagottino rosa che la levatrice le aveva posto tra le braccia il 3 agosto 1481, la garanzia di una buona pensione: scelse infatti di avviare la figlia al suo stesso mestiere. Sul finire del Quattrocento, la loro casa di piazza Scossavalli diventò così il salotto della giovane Lucrezia: qui, a quattordici anni, persa la verginità. Il suo primo cliente, un giovanotto ricco quanto sprovveduto, venne spennato in meno di un mese. E mentre la madre e il patrigno investivano il denaro acquistando immobili e terreni, lei metteva al mondo una figlia col suo stesso nome: Lucrezia. Ma nel frattempo si dava da fare per farsi una cultura da prostituta “honesta”.

Studia, fanciulla. Cos’avevano le “honeste” che le altre non avevano? Dovreste chiederlo a Johannes Burckardt, maestro di cerimonie di papa Alessandro VI, che questa definizione se l’era inventata per distinguere da tutte le altre le meretrici dotate di buone maniere e di un certo livello culturale che spesso bazzicavano anche la corte papale. Una “honesta” era in grado di conversare amabilmente e di intrattenere i propri selezionatissimi clienti con piccanti doppi sensi, recitando antichi versi o suonando. Molte di loro, inoltre, avevano un nome d’arte, che richiamava la classicità greca e latina.
“Diventare meretrix honesta era l’aspirazione massima per alcune prostitute, che arrivarono a fregiarsi di quel titolo per farsi pubblicità e per garantire ai clienti un certo tipo di intrattenimento”, scrive Cinzia Giorgio nel saggio Storia erotica d’Italia (Newton Compton). Ma richiedeva studio e impegno. Come si accorse presto Lucrezia, affidata agli insegnamenti di Niccolò Campani, letterato e giullare di corte. Metà poeta e metà buffone, questo senese non era molto apprezzato dagli umanisti dell’epoca, ma per Lucrezia era stato un buon maestro. Oltre alle lettere, infatti, conosceva bene anche le corti, l’ambiente in cui la sua discepola avrebbe trovato i migliori clienti. Tant’è che, poco più che ventenne, Lucrezia era già una delle cortigiane più amate di Roma, la prima fra le quasi 7mila prostitute dell’Urbe (in media una ogni dieci abitanti). Da allora erano passati una decina d’anni. Imperia si riscosse dai suoi pensieri. Doveva sbrigarsi: era domenica e non poteva far tardi alla messa.

In chiesa in prima fila. Con sapienza si sparse un po’ di rosso sulle guance, mentre le serve la aiutavano a mettere uno dei suoi preziosi abiti di seta e le perle tra i capelli biondi. Sull’abito scollatissimo indossò due catene d’oro. Era pronta. Scese in strada e in capo a pochi minuti si raccolse intorno a lei un nugolo di ammiratori. “Imperia girati di prego” “Imperia guardami…”. Ma Imperia non guardava nessuno: il vecchio trucco delle cortigiane. Passeggiava altera e tranquilla, diretta alla chiesa di Sant’Agostino in Campo Marzio, dove si raccoglieva la maggior parte delle sue colleghe. Stavano tutte sulle panche in prima fila, loro riservate per non distrarre gli altri fedeli. “Le cortigiane erano assidue frequentatrici di chiese, dato che era anche questa un’eccellente forma di pubblicità, forse la migliore”, scriveva l’autrice britannica Georgina Masson nel suo saggio Cortigiane italiane nel Rinascimento. E, anziché essere viste di malocchio dalle autorità ecclesiastiche, le loro visite erano benaccette, “perché la loro presenza serviva a riempiere le chiese”. Mentre il prete parla, Imperia vaga con la mente, ripensando ai suoi amanti e spasimanti: Tommaso Inghirami, il bibliotecario del papa, un omone che dopo un litigio buttò giù la porta che lei gli aveva sbattuto in faccia: il suo Porzio, cioè l’arcivescovo di Carpentras Giacomo Sadoleto; il poeta Bernardino Cappella, grande conoscitore dei classici che dalla loro frequentazione aveva tratto ispirazione per alcune scollacciate composizione in versi.
E ancora: Fausto Evangelista Maddaleni Capodiferro, un altro fissato con gli epigrammi piccanti: l’umanista Angelo Colocci (futuro tesoriere pontificio), che le aveva donato una statuina d’oro di Venere e le aveva suggerito il nome d’arte d’Imperia l’imperatrice delle più belle, paragonabile solo alla dea della bellezza. Risaliva a non più di 4 anni prima la frequentazione con il pittore Raffaello Sanzio, suo coetaneo: pare che un giorno si fosse lasciato prendere dalla furia e dallo sconforto, gridando che non avrebbe mai finito il Trionfo di Galatea se Imperia non avesse posato per lui. Qualcuno dice anche che lei si fosse dell’artista, che invece l’aveva soppiantata con la celebre Fornarina. Questi e tanti altri erano accorsi al suo salotto, tra tappezzerie di broccato e velluto intessuto d’oro, mobili preziosi e tappeti. Il lusso che la circondava era tale che, come riferì l’ambasciatore di Ferrara in una lettera al cardinale Filippo d’Este, l’ambasciatore spagnolo Enriquez de Toledo che era andato a farle visita e aveva finito per sputare in faccia al suo servo per non sporcare la casa: “Non te la prendere, ma qui non c’è nulla di più brutto del tuo viso”, gli aveva detto.
Le donne più giovani l’avevano spodestata nel cuore e nel letto dei suoi spasimanti. E questo era difficile sopportarlo.
Lusso estremo. Imperia aveva messo parte una piccola fortuna investendo i frutti del suo lavoro. Non solo: godeva di innumerevoli attenzioni da parte dei suoi ammiratori, che le donavano guanti di velluto, anelli, vesti greche, pantofole d’oro, lini, profumi. Alle spese più onerose, poi, pensavano i suoi ricchi amanti. Per uno di loro perse davvero la testa: il cavaliere Angelo del Bufalo, un patrizio romano sposato alla sorella di un futuro cardinale. Fu il suo grande amore, ma non ricambiato: senza pensarci troppo, nel 1508, lui cedette spontaneamente ad Agostino Chigi il proprio posto nel letto di Imperia. Molte cortigiane avrebbero desiderato un amante come quel banchiere senese: all’epoca quarantatreenne, era uno degli uomini più ricchi del suo tempo. Le  aveva regalato una casa più bella della precedente, l’aveva aiutata a superare la lontananza dalla figlia Lucrezia, mandata nel convento di Santa Maria in Campo Marzio perché venisse educata come “una casta e modesta vergine”, e, due anni dopo, le aveva dato un’altra figlia, Margherita, che aveva riconosciuto e presa con sé. Eppure oggi nessuna ricchezza poteva consolare Imperia: tutti la desideravano, ma quanti l’amavano? “Non Angelo del Bufalo, Raffaello Sanzio o Agostino Chigi, troppo impegnati con le loro giovani fiamme”, rispose da solo la cortigiana.

Addio mondo. Quella notte Imperia rimase sola in camera da letto. La mattina dopo, verso mezzogiorno, entrando nella sua stanza, le serve la trovarono agonizzante. Due giorni dopo essersi avvelenata, il 15 agosto, morì. Sul comò aveva lasciato il testamento: a parte qualche lascito aveva designato la figlia Lucrezia unica erede dell’intero patrimonio. Uno degli epigrammi scritti per l’occasione recitava così: “Due dèi avevano dato a Roma due grandi doni: Marte l’Impero, Venere Imperia … Piansero l’impero i padri, noi pure questa piangemmo: quelli persero l’impero noi abbiamo perduto il cuore”.

Articolo in gran parte di Maria Leonarda Leone pubblicato su Focus storia n. 146 altri testi e immagini da Wikipedia.


sabato 9 novembre 2019

La guerra civile spagnola: una trappola per l’Italia fascista.


La guerra civile spagnola: una trappola per l’Italia fascista.
Sostenere la ribellione di Franco in Spagna, con profusione di uomini e mezzi, avrebbe dovuto garantire grandi vantaggi alla diplomazia dell’Italia di Mussolini, bisognosa di affermarsi come legittimo impero e potenza europea. Franco vinse, ma fu lì che cominciò il naufragio del fascismo.

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Una colonna italiana durante la battaglia di Guadalajara

Fiat C.R.32 del XVI Gruppo Autonomo "cucaracha" scortano un Savoia-Marchetti S.M.81 in una missione di bombardamento.
Quando, con la trionfale entrata di Badoglio in Adis Abeba il fascismo giunse all’apogeo del suo consenso, il 5 maggio 1936, ancora parecchi nodi rimanevano irrisolti: che per il regime fosse vitale risollevare al più presto i rapporti con le democrazie liberali di Inghilterra e Francia, prima irritate dall’avventurismo coloniale italiano e poi spaventate dalla portata del suo successo, era opinione condivisa da tutti. L’Italia non poteva permettersi di rimare isolata troppo a lungo dalle altre potenze e il suo nuovo status di Impero, perché fosse effettivo, non poteva prescindere dalla loro approvazione. Come ottenere questo risultato era tuttavia fonte di divergenze. Mentre i gerarchi più conservatori predicavano cautela, il delfino di Mussolini, Galeazzo Ciano, premeva per azioni spregiudicate, sicura che Londra e Parigi avrebbero riconosciuto l’Impero non appena fosse balenato ai loro occhi il rischio concreto di un avvicinamento dell’Italia a Berlino.
Hitler, consapevole di avere tutto da guadagnare dai dissidi di Roma con i suoi storici alleati, rimaneva alla finestra, aspettando l’occasione propizia per tentare di far inclinare verso la Germania il baricentro della diplomazia fascista. E’ su questo drammatico sfondo che irruppero  il 18 luglio, Francisco Franco e alcuni tra i più importanti generali dell’esercito spagnolo, sollevandosi in armi contro la fragile Republica, pericolosamente orientata a sinistra. Il golpe, fallito l’effetto sorpresa, innescò rapidamente una guerra civile di vasta portata sul territorio nazionale. Contro il legittimo governo in fase di assestamento si muoveva una galassia composita di conservatori, integralisti cattolici e monarchici, tutti coalizzati per restaurare la monarchia o comunque un governo di impronta conservatrice. Inizialmente minoritaria, ma destinata a svolgere un ruolo di primo piano all’interno della coalizione, era poi la Falange di José Antonio de Rivera, ispirata all’ideologia fascista.
L’Italia non sostenne in alcun modo il golpe, non era nell’interesse del Duce, il quale auspicava che la Spagna potesse rimanere ancora a lungo uno Stato neutrale, forte e in grado di resistere alle pressioni diplomatiche d’Oltralpe. La Francia, infatti, se fosse riuscita ad assicurarsi l’amicizia di Madrid, in caso di guerra europea su larga scala avrebbe potuto velocemente trasferire via Gibilterra le proprie truppe dalle colonie africane alla madrepatria e far valere così la propria schiacciante superiorità militare. Furono dunque tradizionali considerazioni di politica estera quelle che più influirono sull’orientamento dell’Italia verso la questione spagnola, specialmente dopo l’Alzamiento Nacional, quando ci si rese conto che l’eventuale sconfitta dei ribelli avrebbe portato al consolidamento del governo eletto, a tutto vantaggio delle sinistre più radicali, socialisti e comunisti allora al governo in Francia. Si può quindi immaginare con quale preoccupazione Mussolini venne a sapere che da Parigi erano stati rapidamente inviati aerei e armi al governo repubblicano: quanti più aiuti francesi la Repubblica avesse avuto, tanto più nettamente si sarebbe schierata a fianco delle democrazie occidentali una volta sedata la ribellione. D’altra parte, valeva anche l’opposto: se l’Italia avesse dato seguito alle proprie simpatie per i nazionalisti con un sostegno concreto e questi avessero infine sconfitto i repubblicani, senz’altro Roma sarebbe stata tutelata nei propri interessi geopolitici.
Fu la Germania, per prima, ad accettare le richieste d’aiuto di Franco e a trascinare con sé l’Italia sulla via dell’intervento. Il fascismo cadde nella trappola tesagli da Hitler, che da tempo attendeva l’occasione propizia per allontanare ancora di più Roma da Francia e Gran Bretagna: cordialità e stima reciproche tenute faticosamente in vita da Galeazzo Ciano fino a quel momento, nonostante le sanzioni comminate all’Italia in seguito alla campagna coloniale in Etiopia, con il sostegno dell’allora ambasciatore a Londra Dino Grandi, che per idee e cultura aveva una naturale propensione per le potenze occidentali.
La collaborazione da italo tedesca, propiziata dalla visita di Mussolini del principe d’Assia, marito di Mafalda di Savoia, prese corpo tra agosto e settembre, quando Mussolini affidò la responsabilità della missione italiana in Spagna al generale Mario Roatta capo del SIM, il Servizio d’Informazione Militare. Fu lui a tenere i rapporti con Franco e a guadagnarsene la riconoscenza, tanto che nel 1945, evaso dal carcere in cui era stato rinchiuso con l’accusa di crimini di guerra in Iugoslavia e dell’assassinio dei Fratelli Rosselli, sarebbe potuto riparare nella penisola iberica e lì rimanere al sicuro per decenni. Un’altra ragione che indusse l’Italia a sostenere i golpisti di Franco fu l pronto schierarsi con i repubblicani dell’antifascismo internazionale, dall’Unione Sovietica agli esuli italiani. Gli stessi fratelli Rosselli, al tempo attivi in Francia, promossero la parola d’ordine: “la guerra civile del proletariato di Spagna è guerra di tutto l’antifascismo”. Si valutò insomma come concreto il rischio che “l’infezione rossa”, se non stroncata subito, dopo aver attecchito in Spagna, si sarebbe propagati ad altri stati europei. Nonostante il modesto successo che ebbe l’intervento presso l’opinione pubblica nazionale, è indubbio che alcuni settori specifici videro con favore il coinvolgimento dell’Italia negli affari spagnoli. Al di là delle alte gerarchie militari, che lo accettarono con entusiasmo, a chiederlo erano vasti settori del clero e del mondo cattolico, spaventati dagli eccidi di matrice antireligiosa e insieme affascinati dalla prospettiva di unirsi “alla santa cruda contra el marxismo”. Non erano da meno le Camicie nere della Milizia, desiderose di riprendersi una rivincita d’immagine dopo i successi del Regio Esercito in Etiopia e di fascistizzare il conflitto, facendo della Falange spagnola il fulcro di un nuovo Stato corporativistica sul modello italiano. In verità, Franco andava in un’altra direzione: come dittatore si contraddistinse per l’opportunismo e per il talento di regnare su fazioni fra loro rivali,  a scapito di un reale progetto politico e i primi a rendersene conto furono proprio alle Camicie nere. Già all’inizio del 1937 Farinacci scrisse con amarezza a Mussolini che il Caudillo non “aveva nessuna idea precisa di quella che sarà la Spagna di domani”, che si preoccupava “soltanto di vincere la guerra e di mantere poi, per un lungo periodo, un governo autoritario”.
Le fasi del coinvolgimento seguirono le previsioni del generale Faldella, che preventivamente sondato da Roatta sulla missione rispose: “La Spagna è come una sabbia mobile: se ci si mette dentro la mano, ci si va dentro del tutto. Se le cose andranno male si darà la colpa a noi, se andranno bene ci si dimenticherà”. Fino a novembre il grado d’intervento italiano fu modesto e gli aiuti consistettero essenzialmente in armi e personale istruttore, dopodiché Roma, preoccupata per la stasi del conflitto, decise di alzare la posta nella speranza di provocare uno scossone decisivo alla contesa spagnola. Fu così che, tra dicembre e febbraio, il CTV, il nuovo Corpo Truppe Volontarie, raggiunse le 48.823 unità, per tre quinti Camicie nere. Lo componeva una massa eterogenea, poco addestrata, scarsamente coesa, anche se bene armata. Contro il parere dello stesso Franco, che li avrebbe voluti impiegati separatamente, gli italiani si presentarono come un blocco unico sotto il comando di Roatta, in linea con una politica di prestigio fascista e italiano. Obiettivo finale era portare i nazionalisti spagnoli il più rapidamente possibile alla vittoria, per smarcarsi quanto prima dalla Germania e ottenere, quindi, da Inghilterra e Francia un accordo politico generale, in linea con le ambizioni di grande potenza, nutrite dal fascismo. Se l’inizio della campagna fu incoraggiante, con il CTV che in pochi giorni conquistò Malaga, il fallimento della successiva offensiva  su Guadalajara gelò ogni entusiasmo. Quando il 18 marzo il fronte italiano crollò, soltanto il logoramento generale impedì agli avversari di inferire sulle truppe in ritirata. Lo scacco fu terribile, più ancora politico che militare. La stampa internazionale lo presentò come la “Caporetto” del fascismo, che dopo essere apparso inarrestabile per 15 anni veniva, infine battuto sul campo da un esercito da un esercito popolare, composto in larga parte da volontari delle Brigate Internazionali, tra cui spiccavano gli antifascisti italiani del Battaglione Garibaldi. Guadalajara segnò uno spartiacque: non solo allontanò di molto la possibilità di una svolta nella guerra civile e, quindi, di un riavvicinamento italiano alle democrazie occidentali, ma soprattutto condannò il fascismo a mantenere una forte presenza in Spagna nella speranza di conseguire un obbligato riscatto sul campo. L’impegno al fianco di Franco e di Hitler, insomma smise di prospettare vantaggi concreti all’Italia, ormai definitivamente impantanata nelle sabbie mobili spagnole, ma continuò a gravare, come e più di prima, sulle forze armate e sulle finanze dello Stato. lo storico Coverdale ben riassume la situazione scrivendo che “più di quanto avrebbe potuto fare una qualsiasi vittoria. Guadalajara aveva ormai legalo l’Italia al carro franchista”. Non passarono poche settimane dall’insuccesso che il comando del CTV passò al generale Bastico. Questi, ristrutturando completamente il corpo volontario e sottoponendolo a un intenso addestramento, ottenne che le sue truppe, già in agosto, risultassero decisive nella vittoriosa offensiva su Santander. Se da una parte Mussolini poté così considerare vendicata l’onta di Guadalajara, dall’altra Franco risentì per il ruolo di primo piano che Bastico pretese per le proprie truppe, tanto che alla fine del mese, per assecondare Franco, si dovette rimpiazzarlo col generale Berti. Nei mesi successivi, per quanto Berti stesso ebbe da lamentarsi per la marginalità cui i franchisti relegavano il corpo italiano, gli uomini sotto il suo comando, quando chiamati in causa, seppero comportarsi “con efficienza e dedizione, all’altezza delle truppe franchiste” come scrisse Rochat. Ad ogni modo, col tempo Franco ebbe sempre meno bisogno del CTV e, di pari passo con l’aumento della fanteria autoctona, che a fine guerra raggiunse il milione di uomini, diminuì inevitabilmente la visibilità delle truppe italiane, con grande scorno di Mussolini. Ciononostante, poiché il Duce volle fino all’ultimo evitare di sembrare disposto a compiacere l’Inghilterra pur di ottenere l’accordo generale, solo con l’avvicinarsi della vittoria nel 1939 furono progressivamente rimpatriate, quando ormai le sorti del regime mussoliniano erano lontanissime da Londra e sempre più legate a quelle del Nazismo. Il bilancio finale del coinvolgimento italiano nella guerra, che Dino Grandi nelle sue Memorie paragonò “a una malattia subdola, lenta e progressiva”, fu di 6255 morti e  21715 feriti. Un aspetto spesso poco considerato dell’intervento italiano è il ruolo giocato dall’aviazione, che agì sempre in autonomia su tutti i fronti, in appoggio ai nazionalisti e fornì un contributo essenziale alla vittoria dei ribelli. I 764 aerei e i 5699 uomini dell’aeronautica inviati in Spagna garantirono ai franchisti il dominio dei cieli, una maggiore protezione delle truppe di terra e un alto successo nelle misure che puntavano a colpire obbietti strategici e città nelle retrovie repubblicane. Nel complesso, puro considerando la sconfitta di Guadalajara, l’Italia dimostrò di poter sostenere adeguatamente lo sforzo bellico di una moderna guerra europea. Se poi, nel 1940, questo non avvenne, non fu dunque perché le forze armate uscirono a pezzi dal conflitto iberico, che anzi avrebbe dovuto permettere loro d’acquisire preziosa esperienza sul campo, ma per altre ragioni. Negli stessi anni in cui le potenze europee intraprendevano un’accelerata corsa al riarmo, Mussolini non comprendendo quanto rapidamente si stessero logorando gli equilibri internazionali, utilizzò fondi che sarebbero stati vitali per la preparazione di una guerra continentale per assicurarsi successi di prestigio a breve termine, senza affrontare quelle inefficienze del sistema industriale, a lui ben note, che impedivano il pronto rimpiazzo del materiale perduto in Spagna con nuovi e più moderni armamenti. In questo senso il fascismo sarebbe sprofondato sempre più sulle sabbie mobili dal 1936 fino all’inevitabile epilogo.
Carri leggeri italiani avanzano con un carro lanciafiamme L3-35Lf al comando verso Guadalajara.


Truppe italiane durante l'offensiva finale in Catalogna nel 1939

Articolo in gran parte di Iacopo Turconi Dottore in scienze storiche pubblicato su BBC History del mese di novembre 2018 altri testi e articoli da Wikipedia

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